9.5
- Band: SAXON
- Durata: 00:38:54
- Disponibile dal: 05/05/1980
- Etichetta:
- Carrere Records
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New Wave Of British Heavy Metal, o più semplicemente NWOBHM. Sei lettere pesanti, innovatrici. Sei mattoni d’acciaio che nel 1979 diedero una scossa tellurica alle sonorità più forti dell’epoca, depurandole dalle influenze blues ed hard-rock diffuse egregiamente da mostri sacri quali Deep Purple e Black Sabbath (tanto per fare due nomi), in modo tale che l’heavy metal più puro e genuino si ergesse ad autentico protagonista. Dall’isola dell’Union Jack, infatti, cominciò ad esplodere una serie indefinita di band che, ognuna con i propri mezzi, andò ad alimentare la fiamma di questa nuova ondata metallica. Dal grezzume incendiario dei Motörhead al metal più duro e borchiato dei Judas Priest, fino all’energia trascinante e melodiosa degli Iron Maiden. Tre esempi irremovibili che ispirarono, e ispirano tutt’ora, un numero infinito di gruppi. Tre realtà inarrivabili che, con il tempo e visto anche il successo ottenuto e meritato, si allontanarono leggermente dalla ‘purezza’ d’espressione iniziale. C’è però un gruppo, invece, che più di altri, pur non raggiungendo il successo ultra-planetario dei colleghi sopra menzionati, ha sempre incarnato alla perfezione lo stile, l’animo e l’attitudine della NWOBHM: il suo nome? Saxon! Nati quarant’anni fa dalle viscere dei Son Of A Bitch, i cugini più educati dei Motörhead, dopo l’omonimo esordio del 1979, fecero definitivamente il botto l’anno successivo, quando la Carrere Records diede alle stampe “Wheels Of Steel”, un gioiello, un vero testamento di British heavy metal. Riff rocciosi e taglienti si alternano a momenti di autentico speed metal dando quindi spazio a episodi più cadenzati ed armoniosi. Nove-brani-nove che sintetizzano in maniera inappuntabile l’aria nuova dal sapore metallico che la terra inglese aveva iniziato ad emanare al termine dei già favolosi anni Settanta. Graham Oliver e Paul Quinn alle chitarre, Pete Gill on the drums, Steve Dawson al basso, Biff Byford dietro al microfono, a completare un quintetto che avrebbe scritto una pagina importante, se non fondamentale, di un genere che da lì in avanti avrebbe letteralmente invaso l’intera Europa e quindi il mondo. Un quintetto che scalda subito i motori con la fulminea “Motorcycle Man”: un rombo lontano irrompe nelle orecchie dell’ascoltatore prima che l’ugola di Byford cominci a raccontare l’obbiettivo primario dell’ensemble inglese: “I can beat your street machine / We’re taking risks, that’s what we mean… / We get our kicks just when we can / When we can“. Il tutto lungo un binario di riff sul quale la batteria di Gill, in stile locomotiva di tayloriana memoria, detta i ritmi martellanti di un brano la cui posizione nella tracklist poteva essere solamente quella di apertura. Si prosegue con un’altra hit che con il tempo è divenuta un autentico classico della band inglese: lo stacco portante di “Standing Up And Be Counted” strizza sì l’occhio a quello del “No Class” collaudato da Lemmy Kilmister l’anno precedente nell’album “Overkill”, ma è la parte riservata al refrain ad esaltare la freschezza e l’energia trasmessa dall’intero gruppo, in cui il singer dalla bionda chioma fa sicuramente la parte del leone. Veloci, grintosi, ma anche tecnici e passionali. Due caratteristiche, le ultime, presenti in “747 (Strangers In The Night)”, il cui ritornello viene accompagnato da una linea melodica che ben rappresenta i momenti palpitanti vissuti dai passeggeri dell’aereo 101 della Scandinavian Airlines, costretto, nel novembre del 1965, a rimanere sospeso per diverso tempo sopra l’aeroporto JFK di New York, senza possibilità di atterraggio, a causa di un blackout che colpì l’intera città. Un pezzo fantastico che, da allora, ha sempre trovato posto nei live proposti dagli stessi Saxon lungo i loro quarant’anni di carriera. Ma non è finita. A chiudere una prima parte di album a dir poco perfetta ci pensa la titletrack: un riff granitico e immortale apre le porte ad un mid-tempo che ha un solo sinonimo: heavy metal, né più né meno; dalla strofa sino al celeberrimo “She’s got wheels, wheels of steel“, così semplice ma altrettanto efficace e adrenalinico che non necessita di ulteriori aggettivi. Basterebbero questi quattro brani per riassumere il significato musicale di quelle sei lettere menzionate nelle righe iniziali. I Saxon tuttavia sorprendono ancora e con la scattante “Freeway Mad” tornano a pigiare sull’acceleratore, scrivendo in poco meno di tre minuti un letale mix di rock’n’roll/metal da dare in pasto a tutti gli amanti dell’headbanging più sfrenato. Ritmiche pressanti che vengono riprese, allentando leggermente il tiro, nel pezzo più progressivo dell’intero album. “See The Light Shining” si presenta come una song dal doppio volto: più rapida e tambureggiante nella prima parte, più elaborata e settantiana nella seconda, mentre il buon Byford prosegue nel suo squillante (a volte roco) viaggio vocale. E se “Street Fighting Gang” pesta i piedi grazie alla sua prepotenza graffiante e frenetica, in cui le chitarre di Graham e Quinn giocano a fare il ‘diavolo a sei corde’ sferzando l’aria a suon di riff, “Suzie Hold On” è un’altra di quelle perle che va ad impreziosire ulteriormente un full-length già impeccabile. Una sorta di ballad hard-rock da ascoltare on the road mentre un malinconico Biff canta il disperato tentativo di sostenere e tenere in vita la giovane Suzie; da lacrime. Le Ruote d’Acciaio, ormai lise, prendono definitivamente fuoco con la conclusiva “Machine Gun” che, come l’opener, a riprova del titolo, è una vera e propria mitragliata tra i denti, a conferma di come i Saxon hanno sempre saputo districarsi alla grande tra le varie sfaccettature del genere. Un heavy metal che la band dello Yorkshire ha portato con sé sino ai giorni nostri, dimostrando con l’ultimo “Thunderbolt” di aver mantenuto, nonostante l’età, una condizione generale in grado di garantire quantità e qualità non solo in studio ma anche, soprattutto, in sede live. “Wheels Of Steel”: potenza assoluta della NWOBHM.