6.5
- Band: SCHAMMASCH
- Durata: 00:51:14
- Disponibile dal: 25/10/2024
- Etichetta:
- Prosthetic Records
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Da sempre sospesi fra luce e buio, estasi e abisso, gli Schammasch si ripresentano sul mercato con un disco – il quinto della loro carriera – che ne ribadisce le tendenze esplorative e il carattere inquieto, ben lungi dall’essersi definitivamente assestato su una formula stabile e centrata.
Perché se è vero che la base black/death non è stata granché rivista dai tempi dell’esordio “Sic Lvceat Lvx”, pubblicato quasi quindici anni fa, il cosiddetto contorno, ciò che per antonomasia conferisce alla musica del gruppo svizzero un taglio così spirituale e ‘viaggiante’, è anche oggi al centro di ampliamenti e dosaggi quantomeno singolari, i quali – forse per la prima volta – diventano sinonimo di una visione poco chiara, di un’incertezza sul da farsi e sul sentiero da percorrere.
A conti fatti, è dal mirabile esperimento di “Triangle”, mastodontico triplo album che vedeva ogni ‘lato’ sviscerare un aspetto della proposta, che C.S.R e compagni cercano di trovare una quadra fra le suddette istanze estreme, figlie soprattutto di Behemoth e Secrets of the Moon, e quelle ambient/avantgarde, e questo “The Maldoror Chants: Old Ocean”, dopo l’interlocutorio EP “The Maldoror Chants: Hermaphrodite” e il cupo (ma più convincente) full-length “Hearts of No Light”, non si può dire che colpisca il centro del bersaglio.
Intendiamoci, vista la caratura e l’esperienza dei musicisti coinvolti, il livello medio è e resta alto, con una cura maniacale a livello di arrangiamenti e un’interpretazione sentitissima che puntualmente sfocia in passaggi di forte impatto, ma con il passare degli ascolti l’impressione è sostanzialmente quella di una tracklist intenta a sondare più strade senza imboccarne con decisione nessuna, finendo in un limbo di colori diluiti che potrebbe accontentare tutti così come nessuno.
Fin dalla monumentale opener “Crystal Waves”, si viene quindi avvolti da un panno extreme metal dall’atmosfera acquosa e controllata, ben lontana dalle arie di tempesta lasciate presagire dall’artwork; un flusso in cui aggressività, melodia (mai così preponderante) e sperimentazione (da segnalare la presenza di spunti che avvicinano l’operato del quintetto a quello di vari esponenti del filone post-black metal) puntano sul compromesso per riuscire a coesistere, inficiando giocoforza sulla scorrevolezza e sulla spontaneità dell’insieme.
Spiace dirlo, ma qui mancano sia il gusto melodico (soprattutto a livello di linee vocali, spesso pulite e di rado convincenti) per dare una svolta ‘catchy’ all’insieme, sia la ricerca sonora che aveva permesso ai capitoli precedenti di guadagnare punti nell’underground, per un’opera al solito molto vasta e dettagliata che però vive più di momenti (si senta appunto lo struggente finale di “Crystal Waves”) che di un’ispirazione autorevole e costante, in grado di sorreggere le ambizioni di brani che, tolti gli intermezzi “A Somber Mystery” e “Image of the Infinite”, superano abbondantemente i dieci minuti di durata ciascuno.
Tenendo conto dell’attesa, sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa di più.