8.5
- Band: SCHAMMASCH
- Durata: 01:41:31
- Disponibile dal: 04/29/2016
- Etichetta:
- Prosthetic Records
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
“All passion and love
All these things are one,
For us to witness
Once we return to our birthright
And all is none”
“Triangle”, terza prova sulla lunga distanza degli svizzeri Schammasch, è la dimostrazione di come oggigiorno sia ancora possibile comporre qualcosa di fresco e avvincente in ambito extreme metal senza ricorrere a trucchi o a chissà quali ‘effetti speciali’. Un’opera sontuosa e curatissima (tre dischi per oltre cento minuti di musica), che trascende a più riprese il concetto di puro e semplice black/death – già messo alla prova sul precedente “Contradiction” – per abbandonarsi alla risacca del cuore e dell’istinto, lasciando che emozioni sopite da tempo si manifestino in un crescendo di influssi ora profondi e viscerali, ora eterei e soffusi, conseguendo un risultato dal peso specifico enorme. Tre dischi, ognuno con il proprio stile e le proprie caratteristiche, che ci consegnano una formazione in stato di grazia assoluta, ormai svincolatasi dall’ingombrante paragone con i Behemoth per abbracciare un ventaglio di soluzioni ombrose e trasversali, riconducibili a realtà come Ascension, Dark Fortress e Secrets of the Moon e capaci di ammaliare fin dal primo ascolto, quasi fossero un incantesimo. Un lungo viaggio attraverso le sfere della luce e della tenebra da assaporare con calma, senza alcuna fretta o smania, di cui ora proponiamo una più attenta e scrupolosa disamina.
The Process Of Dying (I)
Il primo lato di “Triangle” è senza dubbio quello più violento e facilmente assimilabile al passato della band. Sei brani di media-lunga durata in bilico tra pugnalate black/death e digressioni liturgiche che non tarderanno a riaffiorare nel resto dell’opera, con arpeggi sibillini, cori spettrali e melodie oblique a fare capolino da una miscela di riff affilati e ritmiche fluidissime. Oltre al comparto strumentale, in cui ogni elemento pare incastrarsi al successivo con eleganza e precisione chirurgica, a colpire è soprattutto la performance al microfono del cantante/chitarrista Christopher Ruf, qui all’apice dell’espressività e foriero sia di uno screaming raggelante (“In Dialogue with Death”) che di clean vocals enfatiche (“Father’s Breath”), tramite ideale per una proposta tanto emotiva e sfaccettata. Un incipit magnetico e privo di qualsiasi tipo di incertezza, che spalanca nel migliore dei modi le porte del regno degli Schammasch 2016.
Metaflesh (II)
Dopo una prima parte eccellente ma, tutto sommato, ancora legata alla tradizione, “Triangle” si evolve secondo una piega inaspettata, accantonando quasi del tutto le influenze extreme metal – riscontrabili soltanto in alcune ritmiche in blast beat e nella pesantezza di qualche riff – per immergersi in una pozza di sonorità plumbee e mistiche, dalla forte vena avantgarde, ricche di intrecci melodici che invitano all’abbandono dei sensi e del corpo. Ancora una volta, Ruf ammalia con il suo vibrante pulito (basti sentire la straordinaria suite “Metanoia”), mentre chitarre e sezione ritmica svelano definitivamente la loro ecletticità, dispensando stratificazioni acustiche, solismi cangianti e pulsazioni tribali in un caleidoscopio di dettagli rifiniti con cura certosina. Nonostante l’evidente differenza con “The Process Of Dying”, oltre che con la passata produzione degli elvetici, “Metaflesh” non tradisce la coerenza del concept alla base di “Triangle”, configurandosi come un vero e proprio colpo da novanta. Sensazionale e, per certi versi, commovente.
The Supernal Clear Light of the Void (III)
Il picco emotivo gli Schammasch lo riservano per il gran finale. “The Supernal Clear Light of the Void”, questo l’altisonante titolo dell’ultimo capitolo di “Triangle”, altro non è che un disco dark ambient strabordante di atmosfere impalpabili e cinematografiche; un tuffo al cuore che colpisce in primis per il suo coraggio e la sua audacia, e che in secondo luogo irretisce per la sua straordinaria visionarietà, dal vago sentore di spezie orientali (come dimostrato dai cori maschili e femminili di “Maelstrom”) e punteggiato di crescendo strumentali da pelle d’oca. Trenta minuti di musica profondamente contemplativi e degni dei Dead Can Dance più cupi, dove le tastiere di “Jacob’s Dream” e lo struggente testo di “The Empyrean” consegnano alla storia del metal estremo una perla di rara eleganza e bellezza. Difficile, se non addirittura impossibile, competere con un simile dispiego di classe e talento. Rivelazione assoluta dell’anno in corso.