8.0
- Band: SCIMITAR (DK)
- Durata: 00:40:55
- Disponibile dal: 28/02/2025
- Etichetta:
- Crypt of the Wizard
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Dopo quattro full-length e una serie di EP, i danesi Slægt si prendono una pausa, e tre quarti dei componenti, insieme alla cantante Shaam Larein, danno vita ad una delle creature più ibride e furenti del sottobosco heavy metal europeo degli ultimi anni.
Gli Scimitar si presentano con un album apparentemente senza fronzoli, dal titolo “Scimitarium I”, una copertina con sfondo rosso e il magnifico logo in vecchio stile in primo piano, ma tra i suoi solchi vi sono ben altro che semplificazione e compostezza. Laddove gli Slægt avevano contaminato nel tempo il loro black metal con la NWOBHM più sulfurea e progressiva (Diamond Head, Angel Witch e Sarcofagus su tutti), gli Scimitar compaiono adottando alla base un concetto opposto e speculare, suonando un intricatissimo heavy metal che fa proprie una serie di tecniche esecutive tipiche del black metal e di altri generi e sottogeneri che esamineremo nel dettaglio. Nonostante l’inversione di rotta rispetto al gruppo di provenienza, i danesi hanno reso ancora più astrusa e inaccessibile la loro musica, equilibrata da un’interpretazione lodevole di Shaam Larein, che mostra una straordinaria capacità di gestione dell’intero impianto melodico di “Scimitarium I”.
I più attenti appassionati del cantautorato nordeuropeo ricorderanno il modo in cui l’artista danese venne presentata all’alba del suo debutto solista del 2019, “Sculpture”, descritto come un mix di PJ Harvey e Billie Holiday. A ben vedere, le sue influenze spaziavano prepotentemente anche fra Chelsea Wolfe ed Emma Ruth Rundle, musiciste che più di una volta hanno lambito il mondo del metal, ed infatti il suo canto è raffinato, modulare e imbevuto da una disperazione teatrale che non sconfina mai nello screaming, ma che risulta più vicina al folk scandinavo degli ultimi lavori di Myrkur.
Sin dai primi attimi, infuria una battaglia sonora che non concede riposo, a cominciare dagli arpeggi sinistri dell’intro “Scimitarium I”, per una interpretazione più marcescente e guerresca dei primi Tribulation. L’intro sconfina nell’incedere epico e sferragliante di “Aconitum”, dove le chitarre si rincorrono tra scale e rivolti complessi, fra le righe di tamburi implacabili, su cui la voce della Lareim declama tonante come un canto in una tempesta.
La carica travolgente di “Red Ruins”, similmente a quanto accade su “Fever Dance”, si fa delirante verso la fine, quando le chitarre non resistono alle tentazioni abissali del black metal più tentacolare che i musicisti padroneggiano con disinvoltura. Se in “Hungry Hallucinations” – costruita su un’architettura tipicamente new wave che non tarda a disgregarsi seguendo le coordinate già tracciate coi brani precedenti – vengono in mente i compianti Beastmilk di Mat McNerney, è in “Ophidia”, dedicata alla dea dalle fattezze di serpente, che l’album raggiunge l’apoteosi lirica e sonora dei suoi quarantuno minuti scarsi, dove quanto ascoltato finora conduce verso una dimensione estatica sotto ogni punto di vista.
Il fascino degli Scimitar, dopo tutto, è racchiuso anche nella loro attitudine, in quanto sembrano ignorare ogni tentazione melodica che renda la propria musica vagamente orecchiabile: la melodia è sì sempre presente, ma appare avversa, infausta e ostile, atta a creare atmosfere infernali e opprimenti.
Nella musica di questi ragazzi, insomma, si agita lo spirito più autentico e nervoso dell’heavy metal underground di questo tempo. Ora resta da vedere se questo progetto sia nato per seguire un proprio percorso o, invece, sia da considerarsi, per i musicisti coinvolti, solo una momentanea pausa dagli Slægt.