7.5
- Band: SELBST
- Durata: 00:43:56
- Disponibile dal: 19/04/2024
- Etichetta:
- Debemur Morti
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E sono tre per il progetto solista latino americano che risponde al nome Selbst: la one-man band (coadiuvata dalla batteria di Jonathan Heredia degli Aversio Humanitatis) di stanza in Santiago del Cile (ex Venezuela) torna con un altro lavoro estremamente profondo e pregno di strati e significati, pazientemente rifinito.
Il black metal moderno e dissonante di N torna sulle nostre piattaforme senza un grosso battage pubblicitario, ma si è creato un certo hype attorno alla creatura d’oltreoceano dopo l’ottimo “Relatos De Angustia” del 2020 che, probabilmente, vista la cupa complessità di questo nuovo “Despondency Chord Progressions” (titolo molto bello peraltro), verrà confermata in termini di apprezzamento e acclamazione.
Il nuovo lavoro conferma infatti quanto di buono proposto finora, anzi, lo amplifica e lo porta ancora un passo in avanti per quanto a profondità e ampiezza di respiro.
Si percepisce come sempre un certo debito verso i comparti più freddi di un certo modo di intendere il black metal (Misþyrming, ma anche Mgła, Kriegmachine, Gaerea… Soprattutto nomi ‘recenti’, diremmo), ma si intravede anche una sorta di apertura verso malinconie più misurate: l’intera “Between Seclusion And Obsession”, e il suo senso di perdizione, l’inizio pinkfloydiano di “When True Loneliness Is Experienced”, la progressione chitarristica di “Third World Wretchedness”, straziante nella sua semplicità da ricordare quasi alcune cose del Chuck Schuldiner più riflessivo.
Malinconie misurate, si, nel dosaggio, non nell’esposizione, ecco: la musica proposta dai Selbst è puramente black metal, è violenta, urticante, intrisa di negatività, ma non riesce ad esimersi da una tristezza atavica che ne permea più che mai i connotati (e si senta la conclusiva “The Stench Of A Dead Spirit” a riguardo).
Ancora una volta dunque siamo di fronte ad un lavoro raffinato e dall’approccio adulto e intelligente, che riesce a risuonare autorevole grazie ad una freschezza compositiva rimarchevole e ampia, che come detto abbraccia senza troppi problemi diverse correnti, utilizzando anche qualche bel cantato pulito e creando diversi strati d’atmosfera che sanno toccare vette emozionanti come in “The One Who Blackens Everything” (altro titolo degno di nota).
Chitarre tormentate e ripartenze creano come un microcosmo di nera asfissia, in alcuni punti quasi marziale, mai totalmente lasciata a se stessa; anzi, percepiamo chiaramente che la libertà espressiva è si assoluta ma tenuta sotto controllo, al guinzaglio, al servizio delle canzoni e non viceversa (incluse sortite chitarristiche quasi più hard rock che black metal, e passaggi puramente post-metal).
Insomma, un lavoro fresco e brillante, certamente capace di colpire nel segno, e che mostra la buona salute di un progetto non troppo prolifico (tre full length in sette anni) ma che nelle sue uscite riesce a lasciare sempre un segno del proprio passaggio. Non può certamente essere compreso ai primi ascolti, questo no, ma di sicuro ha le carte in regola per attirare l’interesse anche dei meno attenti.