9.0
- Band: SENTENCED
- Durata: 00:41:28
- Disponibile dal: 11/11/1996
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Self
Spotify:
Apple Music:
Il 1996 è un anno che fa parte di quel periodo in cui la musica metal si sviluppava verso frontiere fino a quel momento inattese. Da un lato venivano pubblicati dischi che in breve tempo avrebbero assunto lo status di classici contemporanei – per citarne alcuni: “Nemesis Divina” dei Satyricon, “The Jester Race” degli In Flames, “Roots” dei Sepultura, “Tunes Of War” dei Grave Digger, “Dusk… And Her Embrace” dei Cradle Of Filth, o anche manifesti di vera e propria rinascita come “The Time Of The Oath” degli Helloween e “Louder Than Hell” dei Manowar -, dall’altro lato iniziavano a conformarsi delle mutazioni all’interno del genere, cioè delle aperture sempre più forti verso un pubblico più trasversale. Insomma, prendeva forma un metal sempre più ‘commerciale’ (per utilizzare un termine cappello che vuol dire tutto e niente). I Metallica sparigliavano le carte con “Load”, appariva “Life Is Peachy” dei Korn, gli Stratovarius emergevano grandiosamente con “Episode”, gli Anathema iniziavano a stabilizzarsi su un genere molto più morbido con “Eternity”. Insomma, il metal estremo iniziava a prediligere una comunicabilità più strutturata, abbandonando gli stilemi del black o del death ‘true’ e senza compromessi, mentre altri gruppi tentavano un posizionamento efficace proponendo musica vicina alle istanze degli ascoltatori meno avvezzi al metal per come era stato fino allora. Non è un caso se l’anno successivo si assisterà agli esordi di H.I.M. e Nightwish, gli Stratovarius diverranno quasi un fenomeno di massa con “Visions” e il death metal melodico si tingerà di power metal con l’ingresso sulle scene dei Children Of Bodom.
Tutto questo pistolotto dovrebbe essere necessario per comprendere bene le motivazioni che sono dietro un album amatissimo (ma anche odiatissimo, dagli ascoltatori più fondamentalisti) come “Down” dei Sentenced, pubblicato verso la fine del 1996, dopo un lavoro, “Amok”, che già aveva parecchio destabilizzato i fan della prima ora, a causa di un netto allontanamento dal death metal delle origini. “Down” non solo incrementa quell’allontanamento: crea una scissione totale nella carriera del combo finlandese, stabilendo una natura nuovissima – tanto che in molti, ancora oggi, si chiedono se avesse senso continuare con lo stesso moniker. Ma “Down” non è un disco importantissimo soltanto se circoscritto alla carriera dei Sentenced. Si tratta di un lavoro che ha aperto ad alcune possibilità che diverranno fondamentali nella costituzione di un sottogenere fondamentale come il gothic metal – collocandosi anche come punto di partenza per quel fenomeno (dalle derive spesso troppo trash) che per un momento venne chiamato ‘love metal’. Molto più dei conterranei Amorphis (che con “Elegy” viaggiavano ancora in territori death e prog), molto più dei Tiamat (troppo oscuri per essere davvero popolari), e forse anche più di Moonspell, Katatonia e Paradise Lost (troppo eleganti e ricercati, in quel periodo). In “Down” dei Sentenced c’era la formula per poter suonare un metal non ‘nu’, non ‘poppeggiante’, ma al contempo in grado di essere apprezzato da una platea di ascoltatori ampissima.
Sicuramente l’architrave per rendere solido questo cambiamento stilistico tanto massiccio è da rintracciare nell’ingresso del nuovo cantante, il riconoscibilissimo Ville Laihiala, che inserisce nei Sentenced un tratto assolutamente peculiare, abiurando ogni forma di cantato estremo, collocandosi come una sorta di erede di una genealogia che parte dai Sisters Of Mercy. E infatti, se l’intro “The Gate” lascia presagire una sorta di nuovo “Amok” – con centralità data a una potente batteria e a un intenso solo di chitarra – con l’opening “Noose” ci si rende immediatamente conto che le cose non sono assolutamente così: il brano parte con un riff accomodante e Laihiala si presenta con un rockeggiante ‘ye-yeah’. “Noose” contiene già lo schema che caratterizzerà quasi tutto il disco, ma anche il resto della carriera dei Sentenced: partiture chitarristiche semplici ma energiche, con ampio uso del palm-mute, realizzate per circondare ritornelli memorabili sempre tesi verso una resa radiofonica, in una perenne atmosfera che più che oscura è da dirsi malinconica.
La successiva “Shadegrown” sembra ridimensionare il sound del disco, con inserti acustici dal sapore amaro tipici del folk scandinavo e un arrangiamento leggermente più complesso, ma il chorus che si apre improvviso è tra i più catchy di tutto l’album. Forse il vero brano protagonista del lotto è “Bleed”: un pezzo quasi punkeggiante, perfetto per le discoteche rock, con un piglio irresistibile. Una canzone che certamente sconcerta (se il cantante non fosse Laihiala difficilmente potrebbe sembrare opera dei Sentenced), ma che funziona dannatamente bene, suscitando entusiasmo anche a distanza di venticinque anni. Le seguenti “Keep My Grave Open” e “Crumbling Down (Give Up Hope)” sono probabilmente gli episodi qualitativamente più alti di “Down”. Una miscela perfetta di elementi variegati: un sentore dell’originalissimo melo-death di “Amok”, forti rimandi al rock più dark ottantiano dei già citati Sisters Of Mercy, momenti acustici e sinfonici a dir poco suggestivi, e un lavoro di chitarre che riesce quasi miracolosamente a intrecciare riff potenti a inserti evocativi. Il sound di questi due brani è composito ma allo stesso tempo granitico, senza rinunciare neanche per un attimo alla possibilità di creare linee vocali melodiche indimenticabili, in un equilibrio sonoro davvero sorprendente. Molto interessante anche “Sun Won’t Shine”, che idealmente chiude la prima parte del disco: un altro pezzo di forte impatto ma che, ascoltato oggi, assomiglia incredibilmente agli In Flames che si sarebbero sviluppati vent’anni dopo – con quegli arrangiamenti semplici e ‘quadrati’, sostenuti da scelte di accordi dal mood oscuro e triste ma anche fortemente orecchiabile e dinamico.
“Down” non è solo una carrellata di potenziali singoli e nella seconda parte, difatti, il lavoro si sviluppa in modo differente. Si trovano “Ode To An End” e “Warrior Of Life (Reaper Redeemer)” (quest’ultima con tastiere vicine ai Children Of Bodom che verranno), canzoni ricche di spunti organizzati in arrangiamenti originali e mai del tutto immediati. “0132” è invece un breve episodio strumentale, spiazzante, con un piglio tra il prog rock e l’AOR, pervaso da un senso di positività quasi vintage. Con la conclusiva “I’ll Throw The First Rock” si torna parzialmente alla dimensione della prima parte. Un brano altamente energico, molto orecchiabile, una sintesi perfetta di questi inediti Sentenced – e quasi un vademecum per tutte quelle band che da questo momento in poi proveranno a cavalcare l’onda di questo nuovo gothic metal che tanto sembrava poter offrire in termini commerciali.
“Down” è dunque un lavoro dall’importanza innegabile. Invecchiato benissimo, complice anche una produzione solida e in grado di restituire il boost energico previsto dalle composizioni della band finlandese. Un lavoro che configura il profilo di una band che, a suo modo, assumerà un ruolo centrale negli anni successivi – tanto da sciogliersi, nel 2005, attraverso un disco conclusivo lanciato come un rito funereo, accolto luttuosamente dai numerosi fan fedelissimi. Per chi scrive “Down” resta il momento più alto nella carriera dei Sentenced: l’attimo quasi magico in cui una formula stilistica realmente innovativa venne creata; mentre, successivamente, questa formula verrà solamente replicata se non, a volte, annacquata.