8.0
- Band: SEPTICFLESH
- Durata: 00:47:15
- Disponibile dal: 01/09/2017
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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Nei Septicflesh da sempre convivono numerose anime artistiche, cangianti tendenze stilistiche, cosmopolite istanze culturali. Nella proposta del gruppo ellenico si avvicendano, spesso intersecandosi, la sempre solida base death metal, la predisposizione alle sonorità di matrice etnica, l’immediatezza di certo gothic metal anni Novanta e, soprattutto, un ampio respiro orchestrale. Un eclettismo quasi sempre supportato da una notevole classe in fase compositiva, quello del quartetto originario di Atene, tanto che oggi è praticamente impossibile non annoverare quest’ultimo fra gli esponenti più rappresentativi e lungimiranti della scena metal europea. Il nuovo “Codex Omega” si inserisce perfettamente nella tradizione della band, dimostrandosi subito ottimo esempio di versatilità stilistica e strumentale, qualità che rende la musica del gruppo immune a catalogazioni troppo facili, pur mantenendo un’impronta riconoscibile nella peculiarità delle costruzioni atmosferiche. Se con il precedente “Titan” i Septicflesh avevano dato talvolta l’impressione di volersi adagiare su una formula più volte sperimentata negli ultimi anni, puntando molto su quelle ritmiche serrate e quelle orchestrazioni roboanti che avevano fatto la fortuna di brani come “The Vampire from Nazareth”, con “Codex Omega” Spiros Antoniou e soci condensano le caleidoscopiche potenzialità in loro possesso in un album leggermente più arioso e ragionato. Questa volta quello del gruppo è un approccio al suono maggiormente libero: la musica segue traiettorie più sciolte, diventando eterea e rarefatta o incalzante con maggiore nitidezza e linearità. Il gioco dei sample e l’ausilio dell’orchestra risultano come sempre esotici ed esoterici, ma le ritmiche ricorrono più spesso a tempi medi, il groove sale di spessore nel lavoro di chitarra, e, di conseguenza, le trame sembrano rifarsi più spesso a quanto offerto dai quattro nel repertorio dei primi anni Duemila. Esemplare in questo senso una traccia come “Portrait of a Headless Man”, gremita di ardimentose geometrie, clangori metallici, inserti di matrice orientale e immancabili sussulti sinfonici. Un episodio di rara intensità creativa, nel quale convergono gli stilemi compositivi tanto di un album come “The Great Mass”, quanto di un “Sumerian Daemons”. Particolare, fra le altre, pure la conclusiva “Trinity”, la quale sposa un incipit sobrio e melodico, tipico dei Septicflesh anni Novanta, con delle parentesi più brutali che invece guardano al presente. L’impressione è che negli ultimi tre anni la formazione abbia lavorato per affinare e perfezionare il più possibile il sound presentato con gli ultimi full-length, cercando di renderlo ancora più digeribile ed incisivo, evitando quelle ripetizioni e quei richiami troppo evidenti a “hit” del recente passato che avevano in un paio di circostanze raffreddato il comunque apprezzabile “Titan”. Anche la produzione è tornata a fare passi in avanti: il tocco del sempre più affermato Jens Bogren si addice totalmente alle atmosfere dei greci e la loro musica può ora contare di nuovo su suoni caldi e ordinati. Il tentativo dei Septicflesh di aggirare un potenziale impasse creativo con piccoli oculati ritocchi ci appare dunque fortunato: lo stile del gruppo torna a possedere un baricentro preciso e si ha continuamente l’impressione che l’ingegno evidenziato da queste dieci nuove composizioni non abbia limiti. Un ritorno sontuoso.