7.0
- Band: SEPULTURA
- Durata: 00:46:05
- Disponibile dal: 13/01/2017
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Warner Bros
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Ed ecco dunque “Machine Messiah”, il nuovo disco dei Sepultura. Giunti ormai al quarto disco senza nemmeno un Cavalera e ancorati alla salda guida di un Andreas Kisser che sembra crederci come non mai, i Nostri oggi sembrano un gruppo piuttosto affiatato, e, piaccia o no, reale ed effettivo, che vive una sua storia autonoma con le proprie vicissitudini e i suoi album più o meno buoni; ma se siete qui a leggere, questo lo sapete molto bene. La cosa buona è che in questa release l’ottica della band è volta verso un’autodeterminazione piuttosto marcata, e “Machine Messiah” è un album che vive di vita propria, autonomo, volto più a cosa la band vuole essere piuttosto che a rimarcare cosa è stata. Sebbene non manchino momenti di stanca o che suonino come dei filler, strizzando l’occhiolino ad un passato nemmeno troppo passato (“Alethea”, con la sua aria tribalistica, o “Sworn Oath”), “Machine Messiah” per buona parte del suo minutaggio si fa ascoltare bene e in alcuni punti persino con curiosità. A partire dalla title track in cui spicca un (buon) cantato pulito ed un coinvolgente crescendo (che si riallaccerà alla conclusiva “Cyber God”), a pezzi come “Phantom Self”, sulla scia di “Roots” ma con una forte connotazione orchestrale che riesce a non fungere da semplice accompagnamento – anzi – o “Iceberg Dances”, in cui c’è un po’ di tutto tra Sud America, aperture quasi prog e latinismi, l’impressione è che la band sia coesa, funzionale e, soprattutto, a proprio agio nella sua pelle. E non mancano sfuriate di puro thrash à la brasilera, come in “I Am The Enemy” e “Silent Violence”, quest’ultima con un gran bell’intermezzo, o anche “Vandals Nest”, che dal vivo faranno la loro porca figura. La nostra impressione è che i Seps vogliano provare a liberarsi, ad essere al passo coi tempi e ad osare nuovamente ma con le idee più chiare di un tempo, e quest’album potrebbe essere un passo per un’ulteriore, gradita evouzione. Non per niente la seconda parte del disco è quella meno coinvolgente, ed è appunto la porzione di disco dove sono più concentrati i tratti distintivi canonici della band. Siamo, in definitiva, abbastanza soddisfatti del nuovo lavoro dei brasil-americani, perché appunto si tende a staccare quel cordone ombelicale con un passato pesante come un macigno, e lo si fa con un certo successo. Possiamo insomma definire “Machine Messiah” un album più che discreto e che potrebbe far vivere alla band una seconda giovinezza, e questo, dopo trent’anni di dischi (di cui quasi venti con Derrick Green alla voce, non sottovalutiamo questo fattore temporale) è un bel punto di arrivo, benché i fan storici potrebbero avere ancora qualcosa da ridire. Per tutti gli altri, vale di certo la pena di un ascolto.