7.0
- Band: SEVENDUST
- Durata: 00:49:03
- Disponibile dal: 01/08/2008
- Etichetta:
- 7 Bros Records
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Capitolo 7: speranza & tristezza. No, non è un paragrafo del Vangelo ma, come lasciato intendere dal titolo, il settimo lavoro per i Sevendust, giunto a poco più di un anno di distanza dal precedente “Alpha”. Dopo aver toccato il fondo con “Next” – non solo metaforicamente, visto il fallimento della loro etichetta e il milione di dollari di debiti – ed essersi sfogati con il già citato “Alpha”, l’album più heavy dai tempi di “Home”, i Nostri decidono di cambiare un po’ le carte in tavola, provando a sfatare una volta per tutte la nomea di ‘AC/DC del nu-metal’. Sfidando la superstizione, i primi cambiamenti si avvertono già nella scelta del titolo (per la prima volta non formato da una parola sola) e nell’anno di uscita (2008, dopo sei dischi rilasciati ogni anno dispari dal 1997 al 2007), ma bastano pochi secondi dell’opener “Inside” per capire che qualcosa è cambiato, visto che al posto del consueto attacco ‘in your face’ troviamo un intro industrial che non avrebbe sfigurato su un disco dei Nine Inch Nails, prima che l’alternanza vocale tra Lajon e Morgan ci riporti su binari più consueti . Quello che saltà subito all’orecchio, accanto all’abituale riffing della coppia Connelly/Mayo, è un uso molto più marcato dell’elettronica che, a partire dalla successiva “Enough”, farà da filo conduttore per quasi tutto il disco, arricchendo il classico 7Dust sound con sfumature inedite, in grado di donare nuova linfa vitale a canzoni come “Scapegoat”, “Fear” e “Lifeless”. Come se non bastasse, a sparigliare ulteriormente il mazzo ci pensano i due pilastri degli Alter Bridge – i quali, curiosamente, con “AB III” si avvicineranno ritmicamente proprio ai 7Dust -, presenti rispettivamente su “Hope” (Mark Tremonti) e “Sorrow” (Myles Kennedy): detto che la contaminazione del songrwiting funziona molto bene in entrambi i casi, il duetto ‘black & white’ tra Lajon e Myles vince a mani basse rispetto al pur pregevole assolo del guitar hero italo-americano. Meno incisiva, e più utile probabilmente a fini di marketing, l’ospitata di Chris Daughtry (rockettaro finalista del talent American Idol) sulla ballata acustica “The Past” (una versione più insipida di “Skeleton Song”), così come non ci ha convinto il singolo “Prodigal Son”, nonostante il suo ritornello quasi southern. Il finale in crescendo, con la più ritmata “Contradiction” e la poliedrica “Walk Away” (chiusa con un gradevole outro pianistico), cala il sipario su un disco che, pur con qualche ombra e grazie all’aiuto di colleghi più scafati, resterà negli annali come un riuscito tentativo di allargare gli orizzonti del quintetto di Atlanta.