9.0
- Band: SHAI HULUD
- Durata: 00:38:48
- Disponibile dal: 20/05/2003
- Etichetta:
- Revelation Records
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Unicità. Quante band possono vantare un simile attributo ed essere viste come un caso totalmente a sé stante all’interno del proprio filone di appartenenza? Pochissime. E quante di esse, pur consapevoli della suddetta caratteristica, hanno sempre preferito mantenere un basso profilo e non piegarsi mai alle richieste del pubblico e del mercato, preservando gelosamente la purezza estetica ed espressiva della loro visione artistica? In tutta onestà, fatichiamo a mettere insieme un elenco soddisfacente di nomi. Ciò che è certo è che quello degli Shai Hulud ne farebbe di sicuro parte, assurgendo anzi a modello d’esempio per tutti quegli outsider che, nella musica così come nella vita, non intendono scendere a compromessi con quelle che (sulla carta) dovrebbero essere scelte logiche o facili.
D’altro canto, da antesignani di uno dei generi più fortunati e diffusi dell’ultimo paio di decenni – il metalcore – si potrebbe pensare che i Nostri non abbiano raggiunto il successo dei vari As I Lay Dying, Hatebreed o Killswitch Engage ‘solo’ per una serie di sfortunati eventi; quei casi che, in altre correnti e altre circostanze, hanno fatto la differenza fra un disco d’oro e la semplice nomea di gruppo cult… nulla di più sbagliato. Basterebbe ascoltare anche solo distrattamente uno dei quattro full-length pubblicati dal gruppo americano per accorgersi di come una simile proposta abbia sempre fatto di tutto per affrancarsi dalla genericità e dal già sentito, e che di conseguenza un tale approccio non avrebbe potuto portare a risultati diversi da quelli che vi stiamo raccontando. Ma facciamo un passo indietro.
I ‘vermi della sabbia’ emergono sotto il sole della Florida del ‘95 guidati da Matt Fox, un ragazzo cresciuto tanto con il mito dell’hardcore punk stradaiolo quanto con quello del thrash metal più ingegnoso e dinamico degli anni Ottanta, e fin dalla loro prima incarnazione si guadagnano legittimamente il titolo mosca bianca all’interno dello scenario hardcore/metal mondiale. Merito di un suono che, oggi come allora, mescolava indistintamente i Voivod con i Chain of Strength, i Sick of It All con i Coroner, i vicini di casa Strongarm con i Metallica dei primi dischi, per un maroso di soluzioni a dir poco imprevedibile che, fra architetture progressive e sbandate nel puro e semplice punk rock, ha saputo entrare nella leggenda nel giro di un disco (l’incredibile esordio “Hearts Once Nourished with Hope and Compassion” del ’97). Un’opera ‘avanti’ sotto qualsiasi punto di vista, tuttora fresca e portentosamente ispiratrice per una serie di gruppi ibridi (e più fortunati) come Misery Signals e Counterparts, il cui contenuto viene ripreso e portato all’ennesima potenza dai brani di questo “That Within Blood Ill-Tempered”.
Pubblicato nella primavera 2003 dall’allora arrembante Revelation Records, l’album vede Fox scuotere dalle fondamenta la line-up degli Shai Hulud e circondarsi di forze completamente fresche rispetto al passato, le quali dimostrano di comprenderne appieno il messaggio e l’ambizione intavolando una performance che brilla sia di inaudita compattezza, sia di scrupolosa attenzione ai dettagli e alle dinamiche dei rispettivi ruoli. Canzoni che crescono, esplodono e si ricompongono in un flusso puramente emozionale che esalta innanzitutto il lavoro svolto dal chitarrista di Pompano Beach e dalla ‘spalla’ Matt Fletcher, fenomenali nell’alternare parentesi tortuose, stacchi più lineari e diretti e digressioni acustico-malinconiche di rara sensibilità, ma in cui – alla fin fine – ogni voce ha modo di esprimere il proprio carattere e la propria personalità. E se si parla di voce, come non citare quella del frontman Geert van der Velde? È lui che con il suo screaming espressivo e sentitissimo ci guida, ci trascina e ci porta ad alzare i pugni al cielo, specie quando (si pensi ad un episodio come “Given Flight by Demon’s Wings”) insegue le melodie euforiche delle sei corde per un risultato finale a dir poco mozzafiato.
È questo, a nostro avviso, il vero metalcore; una crasi totale in cui i confini tra generi sfumano in una palette di colori sanguigni e incandescenti, non sacrificando nulla in termini di profondità e sfidando le certezze dell’ascoltatore grazie a composizioni mutevoli e raffinatissime. Musica che è sempre stata troppo pesante e complessa per l’hardcore kid medio e, di contro, troppo ibridata con il punk per una larga fetta di pubblico metallaro, la cui unicità – ricollegandoci all’inizio – non è stata però mai messa in discussione. Dall’opener “Scornful of the Motivates and Virtues of Others” alla conclusiva “Ending the Perpetual Tragedy”, questo secondo full-length irradia la luce di una stella che, nella vastità del firmamento metal e hardcore, non possiamo che invitarvi a scovare e seguire. Certi della bellezza e della forza rapitrice dei suoi raggi.