6.5
- Band: SHINING (NOR)
- Durata: 00:37:34
- Disponibile dal: 19/10/2018
- Etichetta:
- Spinefarm
- Distributore: Universal
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Detto e fatto. Il mastermind degli Shining norvegesi Jørgen Munkeby aveva avvisato con largo anticipo i fan della scomparsa del sax sul nuovo album e di una – momentanea? – interruzione del filone blackjazz, inaugurato appunto con l’ormai celeberrimo “Blackjazz” nel 2010. Le dichiarazioni sull’atteso “Animal” avevano dato adito alle ipotesi più stravaganti, d’altronde affermazioni del tipo “suona più Muse che Meshuggah, più Ghost che Gojira, più Biffy Clyro che Burzum” sembravano proferite apposta per richiamare l’idea di una rivoluzione copernicana nel sound del gruppo. In effetti, questo è accaduto. I primi assaggi del disco possono essere traumatici come e più di quelli subiti a suo tempo con il famigerato ‘Black Album’ di lor signori Metallica, perché l’indole pop, la levigatezza del suono, il proliferare di synth elettro-pop dell’opener “Take Me”, non fosse per la griffe Shining sulla copertina, mai verrebbero da accostare all’operato di Munkeby e compagni. E andando avanti, lo smarrimento cresce, fra una linea vocale piaciona filtrata dal vocoder, un ‘oooohhh’ da stadio (“Smash It Up!”), linee chitarristiche sculettanti e ospitate di pop singer nordiche (per la conclusiva, myrkuriana, “Hole In The Sky”).
Se l’atteggiamento iniziale può essere quello di gridare allo scandalo e al tradimento, un ascolto più attento rivela alcuni concetti fondamentali. Il primo, è che se analizziamo con calma la discografia degli Shining, come si pongono dal vivo e alcune dichiarazioni passate di Munkeby stesso, l’orecchiabilità e la ricerca dell’ascolto ‘di massa’ sono stati piuttosto centrali almeno a partire da “One One One”, e che in “International Blackjazz Society” la semplificazione degli schemi e la tensione al chorus ad effetto stava portando a una sensibile mutazione del sound scorticante di “Blackjazz”. “House Of Control”, lento dalla melodia portante malinconica e per nulla esagitato, faceva presagire in parte le intenzioni future. Inoltre, nel tour dell’autunno 2016 si era iniziata a sentire “Everything Dies”, il cui tiro rock’n’roll e il martellare del refrain si scollegavano nettamente con il resto della setlist. In secondo luogo, per quanto vi siano forzature e innesti di pilota automatico un po’ troppo furbetti, la produzione smorzi la carica insurrezionale che gli Shining, comunque, non sembrano perdere completamente neanche in questa veste modaiola, almeno a intermittenza il jazz/metaller più famoso del pianeta si cimenta in un songwriting efficace, coadiuvato nella scrittura del disco dalla new entry al basso Ole Vistnes.
Un’ovattata, tenue malinconia scaturita da un tipico scenario di desolazione urbana fende il disco e gli inietta un’atmosfera accostabile a quella del rock melodico ottantiano imbellettato di quanti più synth possibili. È questa la connessione più evidente fra brani che puntano senza vergogna alcuna al rock da classifica, a volte perdendosi in chorus banalotti e schemi privi di mordente (“Fight Song” il caso più lampante), in altri casi assestando divertenti botte d’energia (l’ampiamente anticipata “Everything Dies”). Non si sfugge alla tentazione-ballata/lentone, affrontata con un certo equilibrio nella discreta “When The Lights Go Out”, anche se su questo versante intristito le cose vanno meglio svolazzando sui tappeti digitali di “When I’m Gone”. “Animal” è un disco di rock patinato, per tale va considerato e giudicato: sarebbero servite quindi melodie memorabili, strofe incalzanti, refrain eccitanti e un involucro sonoro tentatore. Tutte qualità che in parte ci sono e catturano l’attenzione, anche se la sensazione generale è che Munkeby abbia ancora molto da imparare in questo campo per diventare una rockstar vincente, quale sembra essere la dimensione cui anela. Quello che ha rappresentato “Blackjazz” per il metal d’avanguardia, è un qualcosa al quale “Animal”, per il rock mainstream, non può nemmeno lontanamente avvicinarsi.