
7.0
- Band: SHIVER DOWN
- Durata: 00:42:15
- Disponibile dal: 30/04/2024
Spotify:
Apple Music:
Le radici di questo “The Void Supreme” vanno ricercate negli anni Novanta, il decennio in cui vide la luce e si sviluppò il gothic metal nelle sue infinite sfaccettature, dalle origini death-doom dei pionieri Paradise Lost, Anathema e My Dying Bride a quello più alternativo di fine decade, rappresentato dai nostrani Lacuna Coil. Un movimento florido e un’epoca d’oro dominati da figure chiave come Waldemar Sorytcha, capace di produrre per Century Media molti dei lavori più significativi del periodo, dai Tiamat ai Moonspell, dai Sentenced ai Samael, dai The Gathering ai Lacuna Coil, e che sarebbe stato interessante vedere al lavoro anche su questo “The Void Supreme”, che rimanda a quei periodo e a quei gruppi, e con il quale i veronesi Shiver Down provano giustamente – viste le capacità – a salire agli onori della ribalta.
Un mondo estremamente variegato, quello del gothic metal, che difficilmente può essere riassunto in una formula ben precisa, a meno che non ci si riferisca al lato più orecchiabile del genere, caratterizzato dalla classica alternanza tra voce femminile e cantato in growl e da dolci e suadenti tastiere a stemperare melanconici riff di chitarra dall’accordatura ribassata. Gli Shiver Down si tengono ben lontani da tale stilema, assestandosi piuttosto su un crossover tra gothic e death metal, senza voce femminile e con una certa predisposizione nel riffing per il suono melodico di Gotëborg, abbastanza evidente su pezzi come “Nether Reality’ e “In Your Absence”.
L’alternanza tra voce in scream quasi black e cantato baritonale alla Pete Steele ricorda molto Fernando Ribeiro dei Moonspell su “Wolfheart”, ma il suono è più vicino a quello di “The Antidote”, mentre il mix tra death melodico e gothic rimanda ai Trail Of Tears del periodo “Free Fall Into Fear” e “Existentia”, dove ad altarnarsi erano le voci maschili pulite e growl di Kjetil Nordhus e Ronny Thorsen. Altri punti di riferimento sono senz’altro gli Amorphis dell’ultimo cantante Tomi Joutsen e i Dark Tranquillity dei pezzi più dark del secondo periodo della loro carriera.
Molto positiva la prova di Federico Dalla Benetta, voce anche dei Riul Doamnei, come anche notevoli le chitarre di Francesco Gamberini e Al Pia, ben accompagnate dalla solida sezione ritmica costituita dal bassista degli Skanners Tomas Valentini e dalla batteria di Gabriele Cardilli; in diversi frangenti sono i sintetizzatori a dare colore e aggiungere personalità alle composizioni, come ad esempio sul pezzo di chiusura “Dreams Left Behind”.
Un album ricco di ottimi spunti e senz’altro di gradevole ascolto; quello che manca è solamente un po’ più di fluidità nella composizione: i pezzi sono interessanti e mediamente coinvolgenti, ma in alcune occasioni possono sembrare più un collage, di buone – e anche ottime – idee, piuttosto che canzoni fatte e finite; manca insomma un pizzico di omogeneità e coerenza nella scrittura. Ciò tuttavia dona una certa imprevedibilità, che non è mai un male, e va senz’altro premiato il coraggio di voler proporre qualcosa di personale e non una mera copia di altre opere. Nei pezzi più riusciti, come la canzone d’apertura “Divine”, il singolo “Dead Silence” o la quinta, bellissima, “The Beauty Of Slumber”, questo inconveniente si nota decisamente meno e tutto infatti scorre che è un piacere. Sia chiaro, non è questione di alternanza fra parti dure e melodiche, che sono linfa per il gothic e il death melodico nonché un po’ il segreto di Pulcinella del metal in generale, è che a volte, come ad esempio sulla sesta traccia “Tourniquet”, i diversi passaggi della canzone risultano leggermente forzati, benché d’impatto. Ciò tuttavia non inficia il valore finale del disco, che rimane di alto livello e si fa apprezzare per la capacità di ridare lustro a un genere un po’ decaduto qualitativamente rispetto ai fasti degli anni Novanta.
Un album che può piacere a una vasta gamma di appassionati, dal metal estremo a quello più classico; ciò che occorre è una certa predisposizione per le atmosfere più cangianti, sofferte e suadenti che il metal può offrire.