5.5
- Band: SIGNS OF THE SWARM
- Durata: 00:39:56
- Disponibile dal: 22/08/2025
- Etichetta:
- Century Media Records
Spotify:
Apple Music:
Lungi dal mollare la presa o dall’abbandonare il sentiero percorso in tempi recenti, i Signs of the Swarm si riaffacciano sul mercato a due anni (quasi) esatti di distanza dal precedente “Amongst the Low & Empty”, contando sempre sul sostegno del colosso Century Media e facendosi nuovamente portabandiera di un suono death-core bombastico, effettato e grottesco nel suo rigettare i concetti (basilari) di costruzione dei brani e songwriting.
Una proposta calata completamente nelle derive più moderne e ignoranti – non in senso buono, purtroppo – del termine, di cui il quartetto di Pittsburgh, sotto la supervisione del produttore Josh Schroeder (Lorna Shore, Mental Cruelty, Ov Sulfur), snocciola lucidamente le caratteristiche in quella che è ormai diventata una parabola caricaturale e distante da quella tracciata da un lavoro sì generico, ma quantomeno strutturato, come “Absolvere” (2021).
Così com’era stato per “Amongst…”, anche “To Rid Myself of Truth” diventa insomma espressione di un linguaggio tanto contaminato quanto asfittico, all’interno del quale la destrutturazione diventa lo specchietto per allodole di una band che non intende mettere sul piatto una serie di canzoni di senso compiuto, bensì un collage di frammenti, idee e spunti tenuti insieme da interferenze di natura industrial e da una sequenza infinita di breakdown enormi e parossistici, i quali – a conti fatti – rappresentano il fulcro vero e sostanziale del discorso.
È attorno a queste parti, condite dal growl esagerato del frontman David Simonich e rese sotto forma di detonazioni ripetitive e quadratissime, che si evolve il contenuto del disco, come se lo sviluppo del guitar work fosse visto come un extra, un’eventualità tra un ‘boom’ catastrofico e l’altro, un’opzione non troppo interessante da esplorare.
Di fatto, quello a cui si assiste è la morte della creatività applicata alla sfera del metal estremo, almeno per la maniera in cui siamo soliti intenderla noi, quando all’ingegno, alla volontà di cimentarsi in qualcosa di violento ma pur sempre dinamico e accattivante, è preferito un approccio caotico e grossolano, buono solo nell’ottica di percuotere gli strumenti e diventare virale grazie a qualche TikTok o reel su Instagram.
Anche il lavoro in cabina di regia di Schroeder, ovviamente, si allinea al trend appena descritto, con suoni digitali che, per quanto conformi all’immaginario cyber-apocalittico del gruppo, non fanno altro che acuire il senso di vuoto e di artificiosità dell’operazione, il cui valore complessivo, grazie a delle strutture un filo più fluide, risulta essere di poco superiore a quello (infimo) del capitolo precedente.
Come detto mille volte in passato, il death-core (inteso come fusione della sfera death metal con quella hardcore) è perfettamente in grado di concretizzarsi in opere rilevanti e di spessore, facendo appunto leva sul dialogo armonico fra le due scuole. Peccato che qui tali categorie vengano tirate in causa dai ragazzi americani senza comprenderne né il senso, né la storia, né le strutture, per una tracklist difficile da non definire indigesta e ridondante.
