9.0
- Band: SKEPTICISM
- Durata: 00:57:19
- Disponibile dal:
- Etichetta:
- Red Stream
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Se c’è una band che più di altre è riuscita, dal primo lavoro, a codificare il proprio stile aprendo una strada nuova ed emozionale nel metal estremo, sono gli Skepticism sin dall’uscita di “Storcrowfleet”.
Uscito nel 1995 per l’etichetta americana Red Stream, questo lavoro racchiude in sè gli stilemi non solo di una formazione, ma di un intero genere musicale; mentre in Gran Bretagna Anathema, My Dying Bride e Paradise Lost forgiavano un nuovo modo di intendere il death-doom arricchendone la struttura più estrema di melodie e atmosfere malinconiche (sono dello stesso anno rispettivamente “The Silent Enigma”, “The Angel And The Dark River” e “Draconian Times), e la Svezia dava i natali a terremotanti pietre miliari di nera violenza e stridente melodia come “Storm’s Of The Light Bane” dei Dissection o “Slaughter Of The Soul” degli At The Gates (senza contare il debutto dei conterranei Opeth con “Orchid”), è la Finlandia ad accogliere la nascita del doom più funereo, prima con i Thergothon (“Stream From The Heavens” era uscito in sordina solo due anni prima) e poi proprio con la formazione di Riihimäki, in grado di vestire i rallentamenti del genere con un sudario funebre solenne e suggestivo, decorato di ricami malinconici, partiture di pianoforte/organo magniloquenti, voci crepuscolarmente gutturali.
Come il primo scroscio di tempesta di cui porta il nome, la canzone d’apertura di “Stormcrowfleet” investe l’ascoltatore con una forza pachidermica, lasciando poi alla successiva “Pouring” il compito di squassare animi ed orecchie con i colpi sordi della batteria di Lasse Pelkonen, che adatta il proprio modo di suonare lo strumento ai ritmi ipogei e rallentati della musica rendendolo a modo proprio iconico, con quella maniera particolare di attutire il suono rendendolo insieme dolente e cerimoniale. Queste ultime caratteristiche sono particolarmente cariche di chiaroscuri grazie anche al lavoro di tastiere di Eero Pöyry: il suono dell’organo, sia pure filtrato attraverso i sintetizzatori, è parte dell’ossatura che contribuisce ad innalzare la cattedrale di suoni verso il cielo, definendone morbide curve e spigoli acuminati, armonizzata con classe e in modo innovativo nella finale “The Everdarkgreen”, seminale ed in grado di gocciolare fin nell’operato di band più recenti (come gli Ahab, ad esempio, per l’uso gorgogliante della voce); intimamente connessa con le chitarre ruvide di Jani Kekarainen e la voce sepolcrale di Matti Tilaeus in “The Rising Of The Flames”, dall’andamento compassato seppur non flemmatico, quieto senza essere tranquillo, impregnato d’urgenza senza per questo risultare frenetico. La coesione tra i musicisti e la maturità della loro scrittura, già palpabili in questo lavoro e ulteriormente cementificate con gli anni, regalano un superbo ritratto di tristezza, dolore, nostalgia, struggimento interiore riflesso nella natura in cui sono immersi i passi dell’ascoltatore, sottoforma di un vero e proprio gioiellino, “The Gallant Crow”: come lo spleen per i poeti decadenti o l’indulgiare assorto del Romanticismo, alle sue note grevi e grandiose (racchiuse da un arpeggio di chitarra, a modo suo iconico) ci si abbandona con stanco sollievo, accettandone il carico di gonfia tristezza venata di struggente epicità.
“Stormcrowfleet” riesce ad emozionare per l’intensità della musica che racchiude, sapientemente ondivaga tra pesantezza e ieratica epicità; anche la produzione, forse non ottimale nel restituire la grandeur da cattedrale che successivamente arricchirà sempre di più l’operato dei Nostri, risulta efficace nel trasmettere un certo senso di polvere cimiteriale e cupezza, costituendo un filtro dalla tonalità cupa ad un album eterno nel proprio indulgere lungo vestigia di qualcosa perso per sempre, stagioni morenti e foglie scheletriche, panorami mai abbandonato durante il trentennio di carriera successivo.
È difficile discernere con precisione i sentimenti trasmessi e provati durante l’ascolto, ma proprio come la copertina, concettualmente indefinita ma perfettamente rappresentativa grazie ai propri toni caldi e palpitanti, non è quello l’importante: occorre immergersi fin nelle più profonde tetraggini del proprio animo, comprendendo le dolorose necessità espresse in musica, vivendone sottopelle le sensazioni evocate, con lo sguardo perso in nebulosi orizzonti. Il senso del funeral doom risiede lì, sotto lo sterno.