voto
10.0
10.0
- Band: SLAYER
- Durata: 00:28:59
- Disponibile dal: 07/10/1986
- Etichetta:
- Def Jam Recordings
- Distributore: Sony
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È l’anno di grazia 1986, e fin troppo è stato scritto o si può ancora scrivere sull’unicità di alcune uscite avvenute nell’arco di quei mirabili dodici mesi in ambito metal. Il mito della Bay Area è ormai assodato, i Metallica hanno sfornato l’immarcescibile “Master Of Puppets”, i Megadeth hanno da poco consolidato la loro credibilità col secondo album; gli Slayer sono infine attesi alla dimostrazione di essere effettivamente tra i pilastri dell’esplosiva scena thrash metal. Ed ecco che il 7 ottobre qualunque dubbio viene fugato: i Nostri sfornano i 29 minuti di musica più violenti e oltranzisti mai sentiti, o persino immaginati, fino a quel momento, e cambiano probabilmente la storia di tutto il metal. Basterebbe leggere un’intervista a caso di qualunque membro di una band black o death per leggere senza timore di smentita quanto gli Slayer siano stati fondamentali per allargare i confini della musica estrema; e se sicuramente i due precedenti album godevano di un alone di malignità superiore, complice una produzione non proprio impeccabile, con “Reign In Blood” Jeff Hanneman e soci dimostrano che si può far male anche ammantando tale cattiveria di precisione chirurgica. E parecchio. A tal riguardo è forse doveroso sottolineare come, per certi versi, un quinto Slayer sieda dietro il mixer (e ci resterà per i successivi otto album): quel Rick Rubin che, fino ad allora, aveva prodotto esclusivamente band hip hop e che spiazza tutti, compresi gli stessi Slayer, inseguendoli a lungo fino ad ottenere di metterli sotto contratto per la sua Def Jam Recordings. Sono rari i connubi così mirabolanti tra produttore e band, ma alzi la mano chi, proprio come nel caso di Sir George Martin coi Beatles, non leghi indissolubilmente il suono dei quattro demoni al missaggio di Rubin. Fino a quel momento, metal estremo significava Venom, Celtic Frost, Hellhammer: gruppi seminali, certo, ma diciamocelo senza paura: a parte i primi, tutta quella ridda di band sperimentali e mirabili vendeva poche migliaia di copie grazie al tape-trading, e la produzione lo-fi, per usare un eufemismo, per quanto affascinante nascondeva e amplificava al tempo stesso mille difetti. Parliamo sicuramente di nuovi lidi di cattiveria musicale, per fortuna non andati perduti, ma per mettere in chiaro che questa musica può davvero descrivere l’inferno alle masse, serviva qualcosa in più: un album diabolico, un giro nel tunnel dell’orrore a velocità folle, ma anche prodotto in maniera cristallina, e finalmente eccolo qui. Dieci pezzi, anzi perle, in cui vengono sciorinati almeno venticinque riff che qualunque metallaro riconosce a memoria, come sa a memoria la sequenza dei brani, che si susseguono senza soluzione di continuità o (quasi) un rallentamento. Un riff in mono viene presto raddoppiato, dopodiché entra in scena l’urlo più famoso del metal: ecco l’infame “Angel Of Death”, il brano più lungo del lotto, poco meno di cinque minuti che ci portano nella mente del dottor Mengele e dei suoi aberranti esperimenti all’interno dei campi di sterminio nazisti. Inutile discutere qui di ideologia, di boicotaggi o di superficialità per il contenuto lirico: gli Slayer dimostrano che l’estetica metal è fatta di musica, di testi estremi e, perché no, di coraggio. Il coraggio di sapere che per una buona fetta di esaltati che nei decenni a seguire pogheranno a braccio teso durante le esecuzioni live, molti altri fan non apprezzeranno affatto questo testo, permettendo comunque al riff portante di stagliarsi nel cervello anche per loro in maniera indelebile. La batteria di Dave Lombardo introduce a seguire uno dei pezzi più affilati dell’album, quella “Piece By Piece” che costituisce un trittico di necrofobia e sanguinosa fascinazione con le seguenti “Necrophobic” (appunto) e “Altar Of Sacrifice”: sei minuti e mezzo di perfetto thrash metal, dove al parossismo dei riff si contrappone una batteria che guida il folle combo alla perfezione, che dirige brevi rallentamenti che oggi potremmo definire quasi sludge, su cui le folli asce di Kerry King e Jeff Hanneman fanno letteralmente esplodere assoli compressi come automobili truccate. Pronte a investirci senza pietà, ovviamente. “Jesus Saves”, amarissima e iconoclastica, si presenta come il pezzo più lento, ma è solo una truffa per avvinghiarci dolorosamente: dalla metà del brano la batteria torna alla velocità della luce e Tom Araya vomita strofe à la Discharge, senza alcun limite. “Criminally Insane” inaugura il filone dei viaggi attraverso gli occhi dei serial killer, tema decisamente caro ai Nostri, e riesce a regalarci brividi con maestria: l’intro è il suono di una sepultura violata, e il crescendo del pezzo ci fa assaporare schizzi di sangue. Della vittima o del carnefice? Il confine è labile, e un secondo trittico narrativo e musicale parte da qui e procede con “Reborn” ed “Epidemic”: la follia e il crescendo musicale vanno di pari passo, tra sferzate -core e, non è possibile non ripetersi, una sequenza di pietre miliari della sei corde: ma anche una prova complessiva che, tra cambi di tempo e velocità mai sentite prima, incorona Lombardo come IL batterista metal. E in tutto questo gli Slayer riescono anche a caricare di epicità numerosi passaggi: ascoltate, se fosse necessario invitare a farlo, la seconda parte di “Epidemic” e diteci se non vorreste invadere la Polonia da soli, per citare Woody Allen. Poi, quando non sembra possibile aggiungere altro, arrivano quasi otto minuti da lacrime, con gli ultimi due brani, a giudizio di chi vi scrive inseparabili: “Post Mortem” apre le ultime danze con maestosità, un vago rallentamento generale e un Araya se possibile ancora più cattivo; il brano si trasforma, grazie all’ennesimo e geniale fill di batteria, in una mitragliata che qualunque band crust si sognerebbe ancor oggi, lanciandosi e lanciandoci nel vuoto. Siete atterrati? Avete ancora qualche osso integro? Forse sì, ma le ferite sono esposte e il sangue gocciola, anzi piove proprio; se dovessimo salvare un solo pezzo della storia del metal, “Raining Blood” potrebbe essere una facile scelta: un’intro da brividi prepara l’atmosfera di un riff circolare e iconico come pochi, le linee vocali ci rasoiano la giugulare, e infine tutto si spegne in un crescendo di chitarre quasi atoniche e nel tuono di crash e tom. È finita, siamo miracolosamente sopravvissuti: ma segnati per sempre, noi e la Storia della musica.