8.5
- Band: SLAYER
- Durata: 00:35:18
- Disponibile dal: 03/12/1983
- Etichetta:
- Metal Blade Records
- Distributore: Audioglobe
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In tutti gli ambiti creativi esistono anni seminali, anni in cui artisti, musicisti o letterati sembrano convergere verso una direzione totalmente nuova e avanguardistica, quasi a confermare le teorie sul campo condiviso, care alla psicologia e alla biologia sperimentali. Ecco, sebbene poi un’analisi storica e critica possa mostrare gli elementi evidentemente ereditati da chi veniva prima, è questo il caso del 1983, anno di nascita ormai appurato del thrash metal, sotto il sole della California. Vero, non mancavano pulsioni analoghe in Germania (e non dobbiamo nemmeno citare le band coinvolte), ma è tra San Francisco e Huntington Park che le sonorità si agglomerano in forma compiuta; si parte dai riff inventati da Gary Holt – che guarda caso ritroveremo proprio negli Slayer negli anni finali di carriera –, una paternità che, per quanto scherzosamente, viene riconosciuta a lui e ai demo degli Exodus, passando per la costruzione di brani sempre meno caotici e meglio prodotti – coi Metallica – per arrivare al terzo elemento distintivo del genere: un’energica cattiveria senza compromessi, tra immaginario satanico kitsch e chitarre che passano a velocità curvatura dello spazio-tempo: ed è qui che il nome scolpito nella Storia è quello degli Slayer e del loro esordio, “Show No Mercy”, appunto. Prima di registrare l’album, i quattro giovanotti giravano i locali della zona suonando per lo più cover, ma altri cardini dell’epoca erano il fiuto e l’intraprendenza dei titolari di etichette musicali; in questo caso il nome/nume tutelare si chiama Brian Slagel, che con la sua meritoria Metal Blade propone innanzitutto ai ragazzi di partecipare con un brano a una delle mitiche compilation dell’epoca: si trattava di “Metal Massacre Vol. 3”, con “Aggressive Perfector” come biglietto da visita, un brano che poi verrà riproposto solo come bonus track in varia forma. E oltre a ciò, la disponibilità a distribuire un eventuale album, purché consegnato finito. A quel punto si mettono insieme i risparmi – almeno di chi nella band già lavorava, più i soldi di papà King – ed ecco che per i quattro è realizzato un sogno, mentre incubi eccitanti vengono offerti agli ascoltatori. Dando un’occhiata ai crediti del disco, è evidente come il vero deus ex machina sia il compianto Jeff Hanneman; Dave Lombardo si concentra sul dare avvio a una carriera come miglior batterista metal di sempre, Tom Araya fa il suo mestiere dignitosamente al basso – invero poco presente – e alla voce, già discretamente distintiva, per il resto due brani portano la firma di Kerry King, un paio sono collaborazioni a quattro mani, il resto è farina proprio del biondo chitarrista, che mette in luce benissimo le sue radici musicali. Le danze si aprono con “Evil Has No Boundaries”, un pezzo nel solco dei Venom, con il primo di tanti urletti iniziali che diverranno iconici per Araya, l’intreccio di riff impastati ma efficacissimi, ritmiche serrate e un ancora misconosciuto Gene Hoglan come ospite nel malvagio coro. A seguire, “The Antichrist” mostra un lato estremamente melodico e priestiano e poco importa che Araya non sia proprio Rob Halford per portare a casa il risultato. “Die By The Sword”, offerta ancora in sede live fino a tempi recenti, è la loro prima cavalcata oscura, che salta dalla cadenza forsennata iniziale a un bridge nuovamente erede di K.K. Downing e Glenn Tipton (che King e Hanneman omaggeranno esplicitamente qualche anno più tardi riprendendo la loro “Dissident Aggressor”), giù fino all’assolo finale di gran classe di Jeff. “Fight Till Death” prende nuovamente avvio su dinamiche à la Venom, ma l’inventiva di Lombardo, coi suoi frequenti cambi di tempo e l’evidente virtuosismo (almeno per l’epoca) dimostrato sul finale, così come le scale discendenti delle due asce, mostrano bene quale scarto tecnico ci sia tra questa band e i tre tagliaerbe di Newcastle. La prima facciata si chiude con un brano bifronte fin dal titolo: “Metal Storm / Face the Slayer”, dove gli Slayer tengono in equilibrio l’amore di Kerry per i chitarristi più funambolici, in primis Eddie Van Halen, con l’immediatezza del punk – il grande amore (non troppo) segreto di Hanneman, come particolarmente evidente nella seconda parte: un manifesto speed metal che da solo informa tuttora il 90% delle band nostalgiche del genere. Qui anche Araya azzecca una linea vocale potente ed efficace, che anticipa a una velocità umana le cadenze di “Angel Of Death”. L’avvio del lato B dimostra, se ce ne fosse stato bisogno, che gli Slayer hanno parecchio da dire, e così ecco “Black Magic”: uno dei loro riff più famosi emerge da una bruma oscura per poi cedere il passo a uno stomp velocissimo che sa glorificare l’acida evocazione scaturita dall’ugola di Araya, con chiusura affidata a uno dei gloriosi momenti di Lombardo. La parte iniziale di “Tormentor” è la prima incursione in territori pseudo doom da parte dei quattro, un’attitudine che esploderà appieno in “South Of Heaven” e che qui si spegne presto, a favore di un brano che alla fine è un hard rock avvincente, solo a una velocità inimmaginabile anche solo cinque anni prima, e con un cantato graffiante come da regolamento. “The Final Command” anticipa le sciabolate di un paio di minuti che faranno la forza del capolavoro “Reign In Blood”, mostrando l’intersezione tra il nichilismo dei Discharge e il parziale onanismo di quando le chitarre dovevano a tutti i costi offrire un assolo ogni quaranta secondi, ed è quindi perfetto il passaggio a un brano più lento, cupo e quasi vicino alla nascente scena US power: si tratta di “Crionics”, che merita citazione anche per il fatto di dare il la a una lunga serie di testi malati, in cui gli Slayer sembrano entrare efficacemente nella testa di esseri morenti o serial killer senza particolari differenze – mentre sul resto dei testi presenti possiamo stendere un velo e un sorriso, giustificando con la giovane età gli esiti lirici. La title-track posta in chiusura ammicca più a certa NWOBHM, in termini di eredità, ma gli Slayer dimostrano di fare sul serio nel voler segnare una cesura: la velocità dei riff è raddoppiata, il cantato è crudele e distaccato, Lombardo picchia come un fabbro senza soluzione di continuità… e senza piatti, secondo alcune leggende: si dice infatti che il suono in studio fosse così caotico che i piatti vennero tolti per limitare i riverberi, e che il loro suono sia stato registrato a parte. Dietro una copertina che oggi appare a dir poco naive, ma che conquistò gli occhi e il cuore di tutti i metallari dell’epoca, ci sono insomma ingenuità e alcuni limiti, francamente più in termini di produzione che di idee, ma tantissima energia e guizzi già seminali; poco importano quindi le recensioni del tempo, in cui anche penne di riviste autorevoli parlavano di cacofonia senza senso o brani puerili: i fan e la Storia hanno dato decisamente ragione agli Slayer.