8.5
- Band: SLEEP
- Durata: 00:53:00
- Disponibile dal: 20/04/2018
- Etichetta:
- Third Man Records
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Vent’anni esatti di attesa. Una pausa che va al di là delle mastodontiche e fumose trame dipinte dal trio di Oakland con i suoi inni psicotropi a base di erba, ma tanto è passato dalla pubblicazione del capolavoro (e disastro discografico, come noto) “Jerusalem”. Certo, nel frattempo quel lavoro fu ristampato e rieditato sotto il nome “Dopesmoker”, con l’aggiunta della restituzione live dell’iconica “Sonic Titan”, e la versione rimaneggiata della band ci aveva offerto un ottimo antipasto quattro anni fa con il bel singolo “The Clarity”. Ora, però, Matt Pike e Al Cisneros, coadiuvati ufficialmente dietro le pelli da Jason Roeder dei Neurosis sono di nuovo in pista per davvero, con un tour già programmato e sold-out e un nuovo album vero e proprio, il cui valore vi riassumiamo senza troppi misteri o giochi di parole: i Maestri sono tornati. Come giusto per qualunque Opera degna di questo nome, gli Sleep aprono con una trama strumentale, in questo caso acidissima e dissonante: sulla titletrack aleggia lo spirito di Hendrix a Monterey, una chitarra stuprata con gli occhi al cielo (socchiusi, ovviamente, grazie alla dopamina) che sul finale si fa drone mistico. È il momento per un tiro di bong da svenimento, il cui suono apre la splendida “Marijuanaut’s Theme”, la perfetta misura di cosa siano gli Sleep nel 2018: una sintesi che lascia a bocca aperta e trascina il cervello altrove tra la potenza di “Holy Mountain”, l’ossessività alienante di “Dopesmoker” e la ieraticità degli Om, la cui ombra lunga si staglia soprattutto nel cantato monotòno e conturbante. Il basso di Cisneros, perfettamente sostenuto da Roeder, è un modulo spaziale che ci staglia verso nuovi e inesplorati mondi, nella galassia Black Sabbath: “Behold as he enters the clearing – Planet Iommia nearing”, e l’omaggio non si ferma qui, come vedremo; dopo una splendida “Sonic Titan”, che non avevamo citato a caso poco sopra, e che trova finalmente forma compiuta e in studio, è tempo delle derive di “Antarcticans Thawed”; un brano più canonico, se vogliamo, ma che mostra tutta la classe degli Sleep nell’unire viaggi a dorso di cammello attraverso deserti assolati (e relative insolazioni) a riff graffianti e derive che hanno solo ed esattamente il lorosuono. È poi il momento di “Giza Butler”: di nuovo le dune, di nuovo i Sabbath, un titolo geniale e una cadenza liquida e conturbante; su cui torna ai suoi apici l’incontro tra il misticismo di scuola Cisneros e l’abrasività di Matt Pike, e in cui la Pentecoste Iommica(sic!) viene unita al giusto omaggio all’altra colonna portante dei Black Sabbath. E poi il finale affidato a “The Botanist”: uno strumentale che guarda a certi momenti di “Vol. IV” senza essere mai plagio, al culto della marijuana, alla psichedelia più classica, sempre in forma personale e unica. Il viaggio del solitario astronauta che campeggia in copertina è probabilmente senza ritorno, con il solo supporto sulla Terra di un ingegnere strafatto; poco male, è un’esplorazione che merita i suoi rischi e vent’anni di attesa.