7.5
- Band: SLIPKNOT
- Durata: 00:52:12
- Disponibile dal: 30/09/2022
- Etichetta:
- Roadrunner Records
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La mitologia correlata agli Slipknot è sempre stata parte integrante del loro successo: anche quando nel corso degli anni si è dissolto l’alone di mistero riguardante le persone dietro le maschere il tumultuoso collettivo si è sempre mantenuto sperimentale, affamato, per svariati motivi volatile nei suoi drammi, nelle liti, nei cambi di estetica e formazione, caotico ma fedele ad una concreta ed immutata visione artistica. Dopo “We Are Not Your Kind” si sono susseguite come sempre parecchie dichiarazioni forti da parte dei singoli componenti del gruppo (per il mastermind Clown, per esempio, questo non è nemmeno da considerarsi un album degli Slipknot), e dopo un fortissimo ritorno sulle scene live l’appetito per un nuovo capitolo discografico è ai massimi storici.
Dopo ventisette anni di carriera, un suono ben definito ed una fanbase totalmente fedele, la parabola degli Slipknot non può essere danneggiata né da un improvviso calo della performance dal vivo (abbiamo recentemente assistito all’opposto) né da dischi indegni, opzione che mai si è verificata storicamente ma che non è possibile escludere del tutto. Eppure Crahan, Taylor e soci si impegnano di nuovo a rilasciare un album intenso, collettivo e vario che spinge in più occasioni al di fuori dalla propria zona di comfort. Dato che all’artista dobbiamo concedere sempre la propria libertà musicale il giudizio complessivo, mai come oggi, dipende quindi da quanto si è disposti ad accettare dagli Slipknot in termini di diversità intesa come lontananza dal trademark sonoro.
Chi ha voglia di aggressività, violenza e anche chi spera in un ritorno alle origini non può che essere accontentato, come anticipavano le discrete anticipazioni “The Chapeltown Rag” e “The Dying Song”, un compendio di ciò che abbiamo già sentito – ma che pretendiamo, sempre – dalla band di mascherati. “Hivemind” ha una ritmica velocissima e una strofa molto impetuosa, tenuta in piedi dall’ammirevole lavoro di piedi di Jay Weinberg, con un’orrorifica distorsione digitale che apre e chiude il brano. “Warranty” gioca col botta e risposta ed è costruita per la sede live, mentre la spietata “H377” è davvero un salto indietro ai tempi di “Iowa”, con le percussioni di Clown e Tortilla a farla da padrone.
“The End, So Far” vive però della sua parte anomala e sperimentale, quella che farà più discutere e creerà più dissidi.
Lasciando da parte “Heirloom”, che a parte lo swag – arrivato in gran parte dai noti trick percussionistici e dal dj – è una proposta davvero simile agli Stone Sour, ci sono episodi davvero anomali che vanno in territori abbastanza inediti, per i quali la sensibilità dell’ascoltatore farà davvero la differenza. “Yen” è una ballad da serial killer che si elettrifica nel ritornello ed è impreziosita dai turntables di Sid Wilson, senza dubbi uno dei ‘most valuable player’ del disco. “Medicine For The Dead” è fatta di loop distorti e carillon sinistri, un anthem dark con un ritornello orecchiabile e contemporaneamente ingannevole per le urla da incubo del frontman. La perla del disco, per chi scrive, è “the heaviest blues song on earth'”(cit. Jay Weinberg) ovvero “Acidic”, una traccia sbilenca, disperata, grottesca e drogata, con pattern di batteria e percussioni infestanti, chitarre fastidiose e un assolo irruente. Una dimensione inedita per la band ma totalmente a fuoco con l’essenza dei nove, sia a livello concettuale che umorale, espressa in maniera decisamente spiazzante.
Si esce dal seminato, invece, con “Adderall” e “Finale”, brani che con tutta probabilità saranno odiati da chi identifica il collettivo con i primi album: due pezzi gemelli che fungono da reggilibri in uno spettro sonoro fuori da quanto mai concepito dal gruppo, psichedelici, eterei, gotici, melodrammatici, con archi, orchestrazioni e addirittura inserti alla Nightwish nei cori. Non importa quanto le fantasiose linee di basso ed il lavoro al pianoforte di Venturella possano sembrare interessanti e quanto musicalmente possiamo riuscire ad apprezzare delle canzoni che tendono di fatto a crescere dopo molti ascolti, il problema è che non riusciamo a rintracciare il DNA del gruppo, non riusciamo ad elaborarle come frutto dei mascherati; insomma, restano fuori dal confine.
Con un titolo che dà il saluto dopo venticinque anni alla propria label storica Roadrunner Records e, forse, anche alla propria zona di comfort a livello compositivo, questo settimo capitolo in studio trova i nove a marchiare la propria condizione attuale, andando a ribadire quanto sia viva la propria caotica e brutale essenza ma anche dimostrando il desiderio di una vera e propria evoluzione, ad oggi incompiuta ma meritevole per l’intento e per il coraggio.
Muovendosi incredibilmente come unità compatta nonostante le mille difficoltà, gli Slipknot consegnano agli annali un altro disco solido ed importante, che li definisce come forza motrice dell’intera scena.