6.5
- Band: SMASHING PUMPKINS
- Durata: 00:44:47
- Disponibile dal: 02/08/2024
- Etichetta:
- Thirty Tigers
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È opinione comune che gli Smashing Pumpkins abbiano smesso di pubblicare album che fossero buoni dall’inizio alla fine con “Machina/The Machine Of God”, e anche su quest’ultimo si potrebbe aprire un lungo e pernicioso dibattito.
In ogni caso, fermo restando che la produzione della band post-reunion non ha mai smesso di oscillare tra il sufficiente (“Oceania”, 2012) ed il deplorevole (il punto più basso raggiunto, almeno nel giudizio di chi scrive, risulta “Zeitgeist”, 2007), bisogna ammettere che, nell’ambito di una prolificità motivata più dall’ego di Billy Corgan che da effettive esigenze artistiche, è possibile comunque assemblare una playlist godibile, un pugno di brani dove ritrovare quel talento compositivo a metà tra il melanconico ed il rabbioso che aveva stregato un’intera generazione di (allora) adolescenti.
Insomma, pezzi come “Again Again Again” (da “American Gothic”, 2007), “Panopticon” (da “Oceania”), “A Song for A Son” (dal progetto “Teargarden By Kaleidyscope”, mai completato), “Knights Of Malta” ed il tuffo nell’alternative rock anni ’90 di “Silvery Sometimes” (“Shiny and Oh So Bright, Vol. 1”) sono la testimonianza musicale di un artista comunque vivo e, se non completamente lucido, mosso almeno da una sana curiosità. Esagerando col garantismo, si potrebbe affermare che persino nelle recenti prove, i prolissi “Cyr” e “Atum” (la cui qualità media fa dubitare davvero che l’autore di “Mellon Collie And The Infinite Sadness” sia presente), ci sia qualche delizia nascosta, a patto di grattar via la crosta di synth-pop che infesta ogni solco di quei dischi.
A differenza dei suoi predecessori, “Aghori Mhori Mei”(“Senza Paura Nel Mio Cuore”) entra nel mercato discografico in modo discreto, con una distribuzione per ora esclusivamente digitale, una promozione quasi inesistente e, soprattutto, tracklist e minutaggio contenuti.
A questo primo sollievo, poi, si aggiunge la sorpresa per una scrittura concisa e una sobrietà negli arrangiamenti che non si vedeva da parecchio, in casa Corgan, con il musicista di Chicago che afferma di aver ripassato la propria produzione degli anni Novanta, ritrovandone l’energia e mediandola, a nostro avviso, con la razionalità (a tratti un po’ ingessata) di un uomo alla soglia dei sessant’anni.
In quest’ottica, non stupisce che il disco sia apra con il vorticare di chitarre elettriche di una “Edin” dalla struttura debitrice di “Cherub Rock”, a cui però bastano pochi secondi per mostrare quanto il senso delle cose sia mutato in questi decenni, di come l’urgenza di un’epica chiamata alle armi abbia lasciato il posto alla serena constatazione di avere ancora forza dalla propria parte, e di aver ritrovato l’alchimia con gli storici sodali James Iha (chitarra) e Jimmy Chamberlin (batteria).
Il brano funge comunque da dichiarazione d’intenti: la successiva “Pentagrams”, infatti, nonostante qualche eccesso di synth, recupera il gusto del refrain a presa rapida che avevamo apprezzato nei pezzi più orecchiabili di “Machina” (“Raindrops + Sunshowers”, ad esempio), “Sighommi” (saggiamente scelta come singolo) è un riuscitissimo numero grunge dalla melodia contagiosa, e per pochi minuti sembra davvero che da “Gish” sia passato a malapena un anno (e non i trenta abbondanti certificati dal calendario), mentre il tambureggiare incalzante e gli archi di “Pentecost” rimandano a “Tonight, Tonight”, anche se qui il tono è da ballata nostalgica e non quello di un invito a vivere il presente.
Anche la seconda parte del lavoro riserva qualche soddisfazione: “Sicarus” avanza come fosse un brano groove metal ed è al tempo stesso ingentilito dagli interventi della tastierista Katie Cole ai cori, mentre “Goeth The Fall” è fondamentalmente un buon pezzo indie pop che si rifà, nei giri di chitarre, ai Sonic Youth di “Rather Ripped”.
“Aghori Mhori Mei” è, di conseguenza, un gioco degli specchi autoreferenziale, in cui ogni riflesso rimanda ad un’immagine del passato, che può essere sì invecchiata meglio (“Sighommi”, “Pentecost”) o peggio del previsto – il pop di “Who Goes There” sembra preso da uno degli ultimi album degli U2, mentre “999”, già dal titolo poco invitante, vira improvvisamente verso un improbabile interludio stoner – ma in ogni caso, porta con sè il peso dell’età in maniera evidente.
Dove trovare, allora, il Billy Corgan del 2024? Basandoci sui lavori precedenti, non ci stupirebbe di scorgerlo dietro la conclusiva “Murnau”, una tenera ballata condotta dal pianoforte ma deturpata da pacchiani interventi delle tastiere, o nell’hard rock che si dimena senza una direzione precisa di “War Dreams Of It Self”. Nel presente, insomma, Corgan sta dove l’avevamo lasciato, a riempire di suoni e idee abbozzate ogni angolo, per nascondere la mancanza di ispirazione, e questa è davvero l’unica notizia poco confortante di “Aghori Mhori Mei”, che nei momenti migliori invece si rivolge ai fan più fedeli, visto che sono loro a meritarsi, dopo tante delusioni, un album nostalgico ma da ascoltare con piacere, senza sorrisi di circostanza o imbarazzo.