4.0
- Band: SMASHING PUMPKINS
- Durata: 32:10
- Disponibile dal: 16/11/2018
- Etichetta:
- Napalm Records
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
Di nuovo tornati a ‘volesse bbene’ i cari vecchi Smashing Pumpkins (almeno i tre dei membri fondamentali) sono finalmente tornati al traguardo di un nuovo disco che, almeno a livello di nome e condizioni, potesse suonare come nuovo, autentico portavoce del nome in copertina. Dicevamo ‘finalmente‘ ma non sicuramente per tutti. Almeno non per quelli ancorati alla dimensione magica (e quasi perfetta) della golden age della band di Corgan: almeno quella della triade perfetta di “Gish”/ “Siamese Dreams”/ “Mellon Collie & The Infinite Sadness” (pace all’anima loro!). Un’età purtroppo irripetibile, legata al proprio tempo, all’età dei componenti, al caso, alle contingenze varie, all’aria che tirava nei Nineties. Si dica infatti subito che i due singoli presentati in anteprima, “Solara” e la più radio-friendly “Silvery Sometimes (Ghost)”, non è che avessero fatto proprio presagire un lavoro capace di richiamare quelle sonorità epocali. E purtroppo le prime impressioni diventano, con l’ascolto dell’album nel suo insieme, tristi verità.
Già con l’opener “Knights Of Malta” si nota infatti che la tonalità è molto vicina ai new-Pumpkins era Duemila, quelli di Corgan come unico mastermind ufficiale e reale, molto più orientati a tonalità più soft e molto più legate alla tradizione di un certo american rock più certosino e invecchiato, in più senza la minima volontà di dire qualcosa di interessante a livello di espressione e/o di musica. Insieme al singolo già menzionato e al terzo pezzo, “Travels”, ci si trova già di fronte ad un album che ha queste prerogative. I brani sono efficaci, maturi e schietti, seguendo la scia di una maturità, da un lato, a livello di capacità compositive e tecnica, e da poca mancanza di sperimentazione, dall’altro, che porta il disco a ‘non osare’ quasi mai, né in attitudine, né in musica, né in nient’altro. Non c’è cuore, non c’è estro, non ci sono nemmeno le belle canzoni. Per non parlare della totale mancanza di contenuto lirico che possa definirsi tale e non una mera accozzaglia di frasi che un qualsiasi algoritmo potrebbe, oggi, ricreare sopra ad un giro di accordi rock. Non ci sono nemmeno i titoli stravaganti della produzione della band di Chicago: nessuna maionese, rinoceronte, porceline dei grandi oceani, niente di niente. Almeno avrebbe potuto di nuovo strappare un sorriso nostalgico.
James Iha e Jimmy Chamberlin sono tornati, ma non è che si senta poi molto il loro contributo effettivo, se non per un certo modo di suonare che rimanda forse – ma proprio a ben vedere – ai bei tempi andati e al bene che si vuole e si vorrà sempre a certi personaggi. È con “Solara” che viene un certo piglio di risveglio distorto e più vicino al passato della band, che però suona ancora come un tributo a quel che si faceva una volta, più che una naturale espressione della band che voglia dire ancora qualcosa. Purtroppo la situazione dell’inizio viene portata avanti dal proseguo dell’album, che si spiaggia pachidermicamente sul bagnasciuga deturpato di un alt-rock sornione e determinato unicamente dai gusti – e vezzi – di Corgan, le cui manie di grandezza non sono di certo finite con il solo rappacificamento con i vecchi compagni (e viene in mente l’inizio delle tre e ore e passa di concerto di questi mesi in cui entra da solo sul palco su “Disarm” accompagnato dalle foto della sua adolescenza). E il grande spettro che rimane sempre più funesto e ingombrante è che tutta questa messinscena sia solamente un mero tornaconto monetario, poiché non solo la band non ha niente da dire, ma non cerca nemmeno di dirla.
La cosa di cui più non ci si capacita è come il sound di “Shiny And Oh So Bright, vol.1” suoni quasi più datato e smorto di un “Machina: The Machine Of God” (in cui si peccava nel voler dire troppo, ma comunque c’erano grandissimi brani e intenzioni portanti) e addirittura di produzioni post-scioglimento come “Oceania”, con la voce di Corgan ben fuori dal mix, come nelle produzioni pop radiofoniche più in voga di oggi e lontanissime da una mentalità, un’attitudine, un cuore sonoro più impastato nel corpo e nell’anima maledetta degli altri strumenti, come era in quei brani in cui l’ugola di Billy usciva con un urlo facendosi strada sbracciando tra i feedback e le distorsioni dei compagni. Brani come “Alienation” e “With Simphaty” sono proprio superflui, oltre alla ricerca di una linea vocale facilotta che cerca di rimanere impressa, proprio per i suoni decisamente poco interessanti, soprattutto per una band che ha fatto del suo sound un portavoce del suo successo. Mosca bianca forse risulta “Marching On”, in cui infatti Iha e Chamberlin tentano di dire qualcosa, ma poi tutto sfuma perché si tratta di in un brano di due minuti e mezzo. E tutto sommato, data l’inutilità del resto e il disappunto che consegue da tutti questi fattori, sembra ormai difficile salvare qualcosa.
Per carità: tutto è molto moderno, ben suonato, ben registrato, ben mixato, ma il nuovo album suona come qualcosa di cui si poteva, per quei molti dell’inizio contro quel fatidico ‘finalmente’, fare benissimo a meno. E di Rick Rubin che fa solo il suo mestiere mettendoci il nome non fregava poi a nessuno. “Shiny And Oh So Bright, vol.1. No Past. No Future. No Sun” è un disco che quando vuol gridare lo fa senza forza, quando vuole dirigersi in un alt rock efficace da classifica lo fa senza i brani e quando vuole farci ricordare gli Smashing Pumpkins ci fa solo distaccare, in maniera quasi totale, dai ricordi di quello che furono.
Il titolo dell’album sembra veramente questo: non c’è il passato della band, non c’è poi, in queste condizioni, un gran futuro e sicuramente non c’è molta luce che possa illuminare questo lavoro. Da questo punto di vista, sarebbe molto meglio che la gente se lo ricordi – come di certo avverrà – con qualcosa come “Shiny Oh Qualcosa” e non pensi a cosa questo disco non è affatto.