
10.0
- Band: SMASHING PUMPKINS
- Durata: 01:02:08
- Disponibile dal: 27/11/1993
- Etichetta:
- Virgin
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Nell’anno di grazia 1991 – l’anno dell’esplosione del grunge con “Nevermind” e “Ten”; delle code ai negozi per l’uscita del doppio “Use Your Illusion” dei Guns ’N Roses; della globalizzazione dei Metallica con il “Black Album” e dei Red Hot Chili Peppers con “Blood Sugar Sex Magic”, giusto per citare i più noti – non stupisce che “Gish”, album di debutto per gli Smashing Pumpkins, sia rimasto ai margini delle classifiche, entrando per una settimana soltanto di striscio nella Top 200 di Billboard.
Cionondimeno, la primigenia unione tra la grandiosità del rock settantiano, il post-punk degli anni Ottanta e l’allora nascente alternative/grunge conquista da subito le lodi della critica – oltre che del pubblico, al punto che nei mesi successivi il debutto della band di Chicago diventerà il disco indipendente di maggior successo fino all’uscita, tre anni dopo, di “Smash” dei The Offspring – garantendo ai Nostri il passaggio dall’indipendente Caroline Records alla casa madre Virgin Records.
L’aspettativa derivante dall’etichetta di ‘nuovi Nirvana’ è tuttavia l’ultimo dei problemi di Billy Corgan al momento di entrare in studio: il batterista Jimmy Chamberlin è ormai sempre più perso nel tunnel dell’eroina, mentre la coppia formata da James Iha e D’Arcy (seconda chitarra e basso, anche se le loro parti sul disco di debutto erano in larga parte state sovrascritte dallo stesso leader) è in piena crisi, rendendo ancora più instabile il già nevrotico e dispotico frontman.
La ricerca ossessivo-compulsiva del sound perfetto – assillo del giovane Billy fin da quando, dieci anni prima, aveva sentito il suono della chitarra di Tony Iommi ruggire dalla casse della radio – diviene il mantra dell’autocratico frontman, murato in studio a tempo pieno per cinque mesi insieme al produttore Butch Vig (lo stesso di “Gish” e “Nevermind”) a registrare decine e decine di overdub per ogni singolo brano, mentre intorno a lui il resto della band è allo sbando.
Il risultato di tanta fatica è qualcosa di mai sentito e al tempo stesso familiare: a differenza degli antieroi rock dell’epoca, dai Nirvana ai Mudhoney, gli Smashing Pumpkins non nascondono la loro adorazione per i padrini dell’hard rock settantiano (Queen, Black Sabbath, Pink Floyd e Led Zeppelin), così come per gruppi ancora meno cool come i Rush o i Boston; il tutto senza dimenticare il post-punk e lo shoegaze dei My Bloody Valentine. Il Dio del Rock, per citare Jack Black, è lo spirito guida che anima il venticinquenne William Patrick Corgan Jr, cresciuto in una famiglia disagiata e alla ricerca di una via di fuga attraverso la musica. Pronti via, e il mix di innocente purezza e magniloquente potenza che renderà immortale il sound delle Zucche negli anni Novanta trova forma in “Cherub Rock”: rullata da prestigiatore, plettrate con ottave di mi al settimo tasto nello stile di Hendrix (quello che diventerà il “Pumpkin Chord“) in un crescendo spazzato via dalle distorsioni, prima di lasciare spazio ad un riff rubato ai Rush (“By-Tor and the Snow Dog”); ironia della sorte, un brano che omaggia il ‘dinosaur rock’ e polemizza con la scena indie rock dell’epoca – non a caso scelto dall’autore, che dichiarava con orgoglio di ‘non aver suonato in una band esibitasi davanti a cinque persone’, come primo singolo – sarà ballato allo sfinimento dalla Generazione X, cresciuta a pane e alternative.
La bellezza di “Siamese Dream” è anche nella sua capacità di toccare le corde dell’anima con una delicatezza comune a pochi: il fanciullino interiore di Corgan, che verrà fuori con ancora più prepotenza nel successivo “Mellon Collie…”, riesce a parlare di un tema delicato come il suicidio con un velo d’ironia nella toccante “Today” (“Today is the greatest day I’ve ever known / can’t wait for tomorrow, I might not have that long“), secondo singolo che, grazie anche all’airplay del video su MTV, catapulta la band nella stratosfera; discorso simile per la melodrammatica “Disarm”, altra power ballad inedita per la scena alternative degli anni Novanta, con quegli arrangiamenti tutti pizzi e merletti che ritroveremo in “Tonight Tonight” – niente a che vedere con l’intimità più scarna di Eddie Vedder o dei Nirvana in versione unplugged – e un testo da brividi (“Cut that little child / Inside of me and such a part of you“) che costerà loro un temporaneo ban dalla BBC. L’apice in questo senso è probabilmente “Mayonaise”, un pastiche scritto insieme a James Iha in cui la voce sembra farsi largo tra le decine di overdub di chitarra, ondeggiando tra le note nei momenti di calma squarciati da lampi ritmici.
La morbidezza carezzevole come un bacio della buonanotte è un tratto distintivo di altre canzoni, dalla commovente sofficità di “Spaceboy” (dedicata al fratellastro Jesse, afflitto dalla sindrome di Tourette) al romanticismo minimalista di “Luna” (introdotta dalla più scanzonata “Sweet Sweet”), ma l’altra metà della zucca è data dalla componente più rumorosa, punto d’incontro con la scena alternative dell’epoca. La seconda traccia “Quiet” – così come “Geek U.S.A.” o “Silverfuck”, impreziosite entrambe da un bridge di stampo dream pop – catturano da subito per l’irruenza dei feedback e per la tensione che traspare dai soli, al punto che sembra quasi di sentir sanguinare le corde delle chitarre, tirate allo stremo nei bending; tra la stratificazione di tracce da livello 29 di Tetris emerge di prepotenza l’altro ingrediente segreto delle Zucche, ovvero il drumming di Chamberlin (non a caso unico elemento insostituibile degli SP, oltre ovviamente al lunatico frontman). Forte di un background di stampo jazz, il batterista originario dell’Illinois riesce ad esprimere potenza con un tocco delicato, e completa alla perfezione le idee più arzigogolate di Corgan componendo le sue parti insieme alla chitarra ritmica, al punto che l’ascolto delle sole tracce di batteria è di per sé un’esperienza memorabile (basti sentire “Geek U.S.A.” con il suo caratteristico uso dell’hi hat).
Altro tratto distintivo dei Pumpkins è la fluidità di genere: se “Hummer” – sette minuti (senza lo straccio di un ritornello) di quiete e tempesta, in cui finalmente il basso di D’Arcy si ritaglia il suo spazio tra un overlay e l’altro – è un viaggio senza ritorno nella mente disturbata del suo autore, “Soma” (originariamente chiamata “Coma”) rappresenta la quintessenza della psichedelia onirica, con una prima metà da sogno, tutta arpeggi e sussurri, che sfocia in un grido disperato di dolore nel solo; due minuti di nichilismo organizzato che consegnano Corgan (con un piccolo aiuto di Iha, in questo caso) nel pantheon dei chitarristi alternative.
Ad aggiungere un tocco d’iconicità anche la cover: non saranno oggetto di leggenda come il bambino di “Nevermind”, ma anche le due bambine in copertina – le baby modelle Ali Laenger e Lysandra Roberts, anche se all’epoca era diffusa la credenza fossero veramente gemelle siamesi – sono un frammento memorabile con i loro abiti da principessa ed ali da farfalla.
Il successo multiplatino darà una bella botta all’autostima di colui che presto diventerà uno dei pelati più famosi del rock, convincendolo a dare vita a quello che sarà il “The Wall” della Generazione X, prima d’iniziare una lenta parabola discendente arrivata fino ai giorni nostri; ma questa, come si suol dire, è un’altra storia…