
7.0
- Band: SOLARIS
- Durata: 00:36:40
- Disponibile dal: 23/05/2025
- Etichetta:
- Bronson Recordings
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Anche nel suo periodo di massima espansione, tra gli anni Ottanta e Novanta, il rock italiano è rimasto un mondo piuttosto autoreferenziale ma per quanto limitati, gli sforzi di importare suoni estranei alla scena sono comunque culminati in un pugno di album seminali. Lavori come “Germi” degli Afterhours, uno dei primi tentativi di declinare in modo autarchico i Nirvana, l’omonimo “Verdena” pieno di rimandi ai Motorpsycho, i Sonic Youth straordinariamente a proprio agio nelle melodie acide de “Il Vile” (Marlene Kuntz) e persino il pop obliquo in “Acidi e Basi” dei Bluvertigo, frutto di un’ammirazione smodata per i Primus, sono invecchiati decisamente meglio degli artisti che li hanno generati.
I romagnoli Solaris si erano fatti notare nel 2020 con “Un Paese Di Canzonette Mentre Fuori C’è La Morte” (Bronson Recordings), un secondo album capace di abbinare ironia caustica (il titolo del disco è una citazione fulminante dalla serie “Boris”), noise rock ed un senso della melodia non comune, che emergeva in pezzi articolati come “Marnero” (probabilmente l’apice del lavoro).
Con il nuovo “…E Alla Fine Della Storia Non C’è Alcuna Redenzione” il quartetto riprende il discorso interrotto pochi anni prima, con i riferimenti che si mantengono ben saldi ai tardi anni ’90, come dimostra l’assalto stoner dell’iniziale “Redenzione”. Nato nello studio di Enrico Baraldi (già al lavoro con Di’Aul e Sedna) e Matt Bordin degli Squadra Omega, il nuovo parto dei Solaris merita un ascolto approfondito, per la sua capacità di osare esplorando, curioso di conoscere il risultato che si ottiene mescolando il gelido incedere degli Helmet con la scrittura visionaria di Amerigo Verardi (“Sereno”, probabilmente l’apice melodico del disco, o il melodramma acido di “Neutralità” che sembra citare “in Bloom” dei Nirvana), oppure quando si abbandona al noise rock dei Jesus Lizard e dei loro discendenti Chat Pile (“Mele”), per poi lasciare il passo a poco concilianti passaggi sludge (la sfibrante “Ospedale” quasi una prova di forza a la Melvins).
Pur non essendo del tutto all’altezza dei suoi predecessori, che rimangono più efficaci nel songwriting, il disco conferma la reputazione del gruppo nel rielaborare in lingua italiana e senza forzature gli stili più disparati, come accade nel singolo “Castigo”, dove risiedono i Tool di “Undertow” oppure nella lunga “Pensile”, nel cui avanzare depresso e cupo si riconoscono i migliori Deftones.
In definitiva, “…E Alla Fine Della Storia Non C’è Alcuna Redenzione” è un passo che consolida ulteriormente la carriera di una band sicuramente avulsa dalle mode e difficilmente classificabile, e che ha l’unico difetto di non proporre ulteriori passi in avanti, rispetto alla discografia precedente, cosa che, per le potenzialità dei musicisti, ci attendiamo di osservare, prima o poi.