6.5
- Band: SOLE SYNDICATE
- Durata: 01:06:20
- Disponibile dal: 17/06/2022
- Etichetta:
- Scarlet Records
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Che fine ha fatto Atlantide? Chi ha ucciso JFK? Che genere suonano i Sole Syndicate? Sono solo alcuni dei misteri che da sempre affliggono l’umanità e le puntate di Kazzenger. Ebbene, oggi proveremo a dare una risposta all’ultimo dei tre. Il quartetto svedese (da non confondere con i connazionali Sonic Syndicate) può essere definito come un incrocio tra AOR di matrice svedese ed hard rock americano, ma come vedremo tra i solchi di “Into The Flames”, terzo disco in assoluto e secondo per la nostrana Scarlet, c’è un po’ di tutto. La roboante opener “Forsaken”, con il suo mix di chitarroni e tastiere, sembra chiamare in causa il power-prog raffinato degli Evergrey, ma già dalla successiva “Count To Zero” ci si sposta su un’immaginaria highway subacqua che collega Stoccolma a Los Angeles, come in una versione invecchiata bene dei Crazy Lixx. Un riff degno dei Godsmack apre “Brave Enough”, ma ancora una volta la macchina del tempo ci riporta negli anni ’80 con “Shadow Of My Love”, ballad strappamutande che potrebbe ricevere la bolla papale dei Ghost. Giusto per non farsi mancare nulla, ecco poi che “Miss Behave” aggiunge anche un po’ di power metal su due ruote (Hammerfall mode: on), restando su coordinate più classiche anche con la successiva “Dust Of Angels”. Come in un flipper impazzito, il boccino torna a colorarsi di spandex con “Sunset Strip” (meno anacronistica di quanto l’attacco farebbe pensare), salvo poi fare una capriola in avanti con il glam-grunge di “Do You Believe”, contaminazione tra Soundgarden ed Europe talmente strana che finisce quasi col diventare credibile. L’epicità di “In The Absence Of Light” sembra voler chiamare in causa “Kashmir” dei Led Zeppelin (ma forse prende come riferimento la versione di Puff Daddy e Godzilla?), mentre sul finale ci si diverte con “Freak Like Me” e “Back Against The Wall”, due pezzi rockeggianti in equilibrio tra melodie laccate e chitarroni compressi, prima della chiusura affidata alla lunghissima title-track (dieci minuti percepiti almeno il doppio). Arrivati a fine ascolto difficile esprimere un giudizio: da un lato, presi singolarmente, i brani funzionano quasi tutti e, nonostante l’eterogeneità, si percepisce in filigrana la volontà di unire tradizione e modernità; dall’altro però l’effetto mappazzone / karaoke / playlist (a seconda dei punti di vista) è sempre in agguato, e la lunghezza mastodontica (un’ora abbondante) non aiuta la digestione. Voto più che mai soggettivo, ma se amate le sonorità anni ’80 nella loro versione più moderna date pure un ascolto.