8.0
- Band: SOLSTAFIR
- Durata: 01:17:28
- Disponibile dal: 14/10/2011
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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Bianco; come la neve ed il ghiaccio che ricoprono l’Islanda, il loro fulgore abbagliante ed il tocco tagliente e gelato. Rosso; come magma rovente e sangue ribollente, passione e calore di una terra sconosciuta ai più. Nero, come la cenere vulcanica che giace su pendici corrose e la lunga notte ventosa che avvolge l’inverno artico.
Così è “Svartir Sandar” e così sono – ma forse è meglio dire sono diventati – i Solstafir, band di Reykjavik ricca di sorprese e fascinazioni, imprevedibilità ed apertura mentale, classe cristallina e rozza bastardaggine, che giunge con il succitato platter al quarto lavoro in studio, apice presente di una carriera partita quindici anni fa, proseguita con difficoltà logistiche ed epocali ed evolutasi in questo malefico e coercitivo ibrido di metallo alternativo, rock’n’roll abrasivo, indie psichedelico, groove ipnotico, acusticismo inebriante e commovente, in grado di infiammare animi morti e placare rabbie esplodenti di continuo. Doppio album dalla durata giustamente piuttosto contenuta, “Svartir Sandar” si divide nei due dischi “Andvari” e “Gola”, ma senza riservare grosse differenze stilistiche nel confronto. Forse “Andvari” è un po’ più introspettivo e “Gola” più aggressivo e vibrante, ma tutte le dodici canzoni presenti sono tranquillamente interscambiabili fra loro. Non ci è dato sapere se la separazione delle tracce sia dovuta a motivazioni liriche, le vocals impazzite di Adalbjorn Triggvason sono infatti tutte in lingua madre, ma tra cavalcate nell’infinito (“Ljos I Stormi”, “Melrakkablus”, l’immensa “Djakninn” e l’altrettanto evocativa title-track), affreschi psico-metallici introspettivi (“Fjara”, “Stormfari”), accelerazioni roboanti che gasano (“þín Ord”, “Æra”) e l’elettronica più elegante (“Kukl”), “Svartir Sandar” non vi permetterà di fare troppe domande sui suoi contenuti, impegnati come sarete nel ripetuto ascolto di una tracklist che ammalia e stupisce, nonostante ormai i Solstafir siano arrivati ai margini dell’heavy metal e siano entrati prepotentemente in un universo musicale colto, altro e fintamente sgraziato. Come la voce di Triggvason, appunto, e come i suoni scelti per il lavoro, che non riusciremmo a definirli in altro modo se non islandesi, quindi carichi di contraddizioni e umori. Se non stolidamente ortodossi nei vostri gusti metallici – ma invero anche se lo foste, così vi spazzate via un po’ di cerume otorino – il nostro vivo consiglio è quello di correre subito ad ascoltarvi i Solstafir, una delle poche band che partendo da condizioni di gelo mortale sa come arrivare a riscaldare nel profondo del cuore. Cowboys From Ice.