8.0
- Band: SOLSTAFIR
- Durata: 00:48:21
- Disponibile dal: 08/11/2024
- Etichetta:
- Century Media Records
Spotify non ancora disponibile
Apple Music non ancora disponibile
In questo nostro mondo miseramente quantitativo, dove l’approccio aziendalista ha ormai fagocitato qualsiasi aspetto dell’esistenza, deumanizzandola e abbruttendola, almeno la musica riesce ancora, almeno in parte, ad affrancarsi da queste libagioni di nulla, ergendosi spesso con la sua sola, schietta, semplice forza, lasciando l’aspetto quantitativo semplicemente a un semplice voto in apertura – che ci piace pensare essere un riassunto, per nulla esaustivo, di quanto un lavoro intellettuale faccia provare, e non lo si dovrebbe interpretare in maniera eccessivamente respingente o invitante all’ascolto.
Nel caso dei Sólstafir e del loro inconfondibile ibrido di post-rock/metal, hard rock, crooning e scampoli di metal estremo, dare un’affrancatura numerica a quanto prodotto diventa ancora più insignificante, se vogliamo, perché ascoltandoli viene solamente voglia di abbandonarsi all’effluvio di note, che paiono richiamare, in un cliché abusato ma ancora significativo, ai territori freddi, silenti e inospitali della loro terra d’origine.
Eppure, se l’’islandesità’ è concetto sdoganato e mercificato in lungo e in largo, in campo musicale e ancora di più in quello di esplorazione effettiva dell’isolata nazione nordica, uno degli esponenti più fieri, credibili e battaglieri rimangono pur sempre i quattro di Reykjavík. I quali, nei maremoti della popolarità crescente e di attese che avrebbero potuto bruciarli o corromperli – almeno da quando con “Svartir Sandar” lo status all’interno della scena internazionale è mutato percettibilmente – non hanno finora mostrato incertezze, rinnovando la propria magia ad ogni successiva pubblicazione.
Gli anni passano, l’ispirazione a quanto pare non si disperde ed arriviamo allora con “Hin Helga Kvöl” a un altro album che di abbassarsi a toni volgari non ne ha proprio intenzione.
Si potrebbe chiudere la recensione di “Hin Helga Kvöl” affermando semplicemente che “i Sólstafir fanno i Sólstafir“, lasciando intendere che non vi sia nulla di chissà quanto inedito nella prestazione offerta sul loro ottavo album. Abbandonate le finezze degli archi e una certa morbidezza, enfatizzate nel periodo di “Ótta” e “Berdreyminn”, tramite il più ruvido ed essenziale – negli arrangiamenti più che nelle strutture – “Endless Twilight Of Codependent Love”, si prosegue in parte nell’indirizzo del disco precedente, andando a comporre una tracklist tanto frastagliata per approcci e differenti gradi di durezza, quanto coesa e fragrante nella riuscita finale.
Certo, ci sono alcuni scatti verso una dimensione più cruda e affine al black metal (la title-track, “Nú mun ljósið deyja”), ma sostanzialmente la speciale, personalissima poetica alla base di tutto il sentire artistico della formazione è quella tipica e facilmente riconoscibile, se si ha un minimo di dimestichezza con i costrutti di Aðalbjörn Tryggvason e compagni.
Un po’ come accaduto per “Endless Twilight Of Codependent Love”, questo suono non eccessivamente rifinito, ispido fino ad essere spigoloso, può inizialmente disorientare o infastidire, per rivelarsi in breve tempo come un’ottima cornice per i Sólstafir nella modalità più hard rock, viscerale e col cuore in mano. Il chitarrismo dolente e malinconico, le voci strozzate e disperate del succitato Tryggvason, i tempi ipnotici e inquieti, il girovagare ramingo in andamenti amletici e riflessivi, rimangono comunque le colonne portanti di uno stile che non ne vuol sapere di diventare abitudine e routine.
Se qualcuno avesse voglia di reclamare che in “Hin Helga Kvöl” non vi è quella vena, diciamo, ‘intellettuale’ di altre loro uscite, a bilanciare questa caratteristica vi è però la franca, rockeggiante affabulazione di brani come l’opener “Hún andar” e “Blakkrakki”, non a caso scelti come anticipazione dell’album.
Una direzione, questa, nient’affatto univoca, perché poi si resta ammaliati e mesmerizzati dai toni languidi di “Sálumessa” e il suo cinematografico minimalismo; oppure ci si fa travolgere dai colpi secchi e dall’epos sognante di “Vor ás”, con l’effettistica sulle chitarre che apre gli orizzonti, uditivi e sensoriali, verso spazi sterminati. Nel dissolversi dell’urgenza rock, la band trova eguale brillantezza, con il semplice connubio voce/piano in avvio di “Freygátan”, o la severa nordicità di “Kuml”, strano esperimento tra ambient, musica cerimoniale e afflato jazz che, dopo aver un attimo spiazzato, si rivela con gli ascolti uno degli episodi più intensi in tracklist.
Gruppo ormai ‘classico’, uguale soltanto a se stesso, con alle spalle oramai una discografia di qualità vertiginosa e un’inventiva ancora lungi dal volersi esaurire. Pure “Hin Helga Kvöl” finirà per farsi ascoltare ripetutamente, e finirà che vi perderete al suo interno, ben felici di rimanervi.