7.0
- Band: SOLSTICE
- Durata: 26:03
- Disponibile dal: 10/02/2014
- Etichetta:
- Into The Void Records
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Con lo split del 2002 avevano lasciato orfana tutta una schiera di appassionati che a metà anni ’90, in un quadro musicale che aveva emarginato il metal nella sua accezione classica, vedevano nei Solstice una delle poche ancore di salvezza per un modo di intendere le sonorità pesanti caduto in disgrazia. Due album, “Lamentations” del 1994 e “New Dark Age” del 1998, hanno lasciato più segni di quanti ne testimonino le copie vendute e sono custoditi gelosamente dagli epic metaller più fedeli. Dal 2007, in una scena a quel punto ben ricettiva a regimi di restaurazione, i Solstice si sono rimessi in marcia. A dire il vero, l’attività in questi anni è stata abbastanza sporadica e frammentaria, ma ora sembra si sia tornati a fare sul serio. La line-up è stata rivoltata come un calzino attorno all’unico componente originario rimasto, il chitarrista Richard M. Walker, e prima di osare il disco sulla lunga distanza i Nostri hanno deciso di saggiare loro stessi e la loro fan base con questo EP di due pezzi più intro e outro. Questi ultimi, come prevedibile, non danno chissà quali indicazioni sullo stato di salute del combo, fungendo più che altro da quiete prima della tempesta l’jntro, e da rombante “to be continued” il pastoso outro. La ciccia è, scontatamente, nel mezzo, e i nuovi Solstice riabbracciano idealmente la causa del metallo incorrotto con il burrascoso attacco di “I Am The Hunter”, traccia scossa nella fondamenta da un macigno chitarristico tanto greve quanto incalzante. Entra subito in scena il vocione di Paul Kearns, uno che va a cercare la teatralità in ogni parola pronunciata e che si prodiga nell’imprimere una forza vocale vibrante, da condottiero. L’uso di un cantato lirico e drammatico all’ennesima potenza fa accostare il singer a Messiah Marcolin ed Harry Conklin, con l’inclusione di una leggera somiglianza nei toni bassi ad Albert Witchfinder. L’apparato ritmico è adeguatamente corazzato e funzionale a mantenere adeguata la forza d’urto senza protagonismi di sorta, mentre la produzione rigonfia ricorda l’anno di appartenenza, smorzando leggermente le coloriture del riffing. Agganci melodici tra il crepuscolare e il medievale interrompono gli strali di epos battagliero, promulgati mediante due lunghe cavalcate in cui clangori di armature e gesti eroici rivivono idealmente davanti ai nostri occhi. Le caratteristiche meramente doom degli albionici sono abbastanza sfumate, il piano di lavoro è inclinato sul versante epic, le stesse andature medie sono piuttosto sostenute e spostate verso l’heavy metal puro. “The Hunter” si snoda su registri non esageratamente dissimili dagli Jag Panzer di un album come “Thane To The Throne”, mentre “Death’s Crown Is Victory” assume la sembianze di una marcia solenne, in cui le iniezioni di ombrosità e un pizzico di nebbiosa malinconia ampliano il ventaglio di sensazioni suscitate. Entrambe le canzoni rivelano una band tonica e desiderosa di riprendersi il suo spazio sulla scena, il tempo dirà se è stato un fuoco di paglia oppure se per i Solstice è iniziata una seconda giovinezza.