8.0
- Band: SOROR DOLOROSA
- Durata: 01:09:19
- Disponibile dal: 15/09/2017
- Etichetta:
- Prophecy Productions
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
Una positiva ossessione per la bellezza, ecco cosa tiene viva e desta l’immaginazione di Andy Julia, cantate e leader dei Soror Dolorosa. Risponde a una connaturata necessità interiore, di appagamento del proprio senso estetico, della volontà di celebrare ciò che vi è di incantevole a vagare nel globo – spesso sottotraccia – tutta la produzione di musica, parole e immagini di questo decadente poeta d’altri tempi. Di professione, Julia è fotografo, un rinomato cacciatore di istantanee che sintetizzino ciò che di pregiato vi è al mondo; arte che esercita nel circuito dell’alta moda e lo porta a viaggiare a lungo in ogni angolo del pianeta, laddove siano richiesti i suoi servigi. È proprio una lunga, languida riflessione su ciò che vede e lo fa riflettere durante i suoi andirivieni quella che prova a raccontarci in “Apollo”, terzo album – oltre al magnifico EP “Severance” – dei parigini Soror Dolorosa. La dolce tristezza impigrita della coldwave e il gothic-rock di tocco effettato della formazione profumano di anni Ottanta, arrecando anche in chi non abbia vissuto quell’epoca moti nostalgici piuttosto pronunciati. Guardare indietro, dentro sé stessi, comunque altrove rispetto alla realtà del presente e alla sua forma fisica e concreta, sembra essere il tratto comune di canzoni che ingentiliscono la cappa plumbea dei passati lavori e contestualizzano la docile personalità dolente dei cinque sotto una luce fioca, appena accennata. Si diluisce in lampi di flebile materia sognante la musica di “Apollo”, che scorre assonnata, in trance, aspersa di una coltre di magica innaturalezza, come se tanta estasi fosse non contemplabile nella nostra vorace normalità e dovesse provenire da una forza esterna, ignota e inspiegabile. I sintetizzatori si appiccicano addosso, chewing-gum dall’aroma inebriante, nella delicata marcia dell’abbandono, potenziale singolo da classifica, di “Another Life”, dove Julia fa risuonare in un’eco struggente la sua voce evocativa di nebbie, freddi umidi, geloni nel cuore, ancora prima che riscontrabili nell’ambiente naturale. La potenza suggestionante del basso post-punk detta i ritmi ma non si fa mai invadente, allineandosi agli stridii rilassanti delle chitarre, che spesso digradano in soffici arpeggiati e si placano in ballate cullanti, come in “Breezed & Blue”. Julia accarezza, allenta le tensioni, dialoga con le nostre paure interiori, placandole se non annullandole. Notevole l’invigorimento in chiusura, condotto da freddi e martellanti synth. Piccoli espedienti danno subitamente carattere ai singoli pezzi, facendoci entrare nel particolare clima di ognuno; pensiamo al tamburello e alla nenia di fondo di “Yata”, altro brano che ha in un tappeto di sintetizzatori avvolgente la leva fondamentale per sradicarci dalla pesantezza della condizione terrena, e spingerci a fluttuare, almeno nei pensieri, in uno stato di pace inscalfibile. Al termine di “Yata”, sboccia “The End”; si cade a capofitto da un precipizio altissimo, per ritrovarci inaspettatamente a volare verso un’alba chiarissima, sulle ali di una melodia immaginifica sfumante nel rimbombo del basso, mentre Julia erompe in strofe trascinanti, arrivando quasi a urlare, rompendo l’equilibrio di sussurri e confidenzialità adottato fino a un attimo prima. Si celebra la solitudine in tutta la sua ricchezza sensoriale durante lo smussato dialogo elettroacustico di “A Meeting”, fra lacrime trattenute a stento e un sorriso che comunque prova a emergere speranzoso. Se volete invece respirare una leggera atmosfera lugubre, condita di eleganza vintage, basta entrare in comunione all’irregolare moto dondolante di “Deposit Material”, raffinata intromissione di vapori funerari in un algido cantico romantico. Un elogio del lento fluire della vita pare essere “Golden Snake”, ombrosa passeggiata fra rumori metallici, schiocchi in lontananza, sotto l’amorevole battere di una pioggerellina autunnale. Anche se in definitiva, a racchiudere il percorso ideologico e formale dei Soror Dolorosa, basterebbe la title track, mediante appassimento della volontà e l’apertura a un orizzonte di splendore. Le chitarre scivolano addosso in un microscopico gocciolamento sulla parte più sensibile dell’anima, i sintetizzatori ondeggiano quasi impercettibili, intanto un tempo di batteria percuote ipnotico e il basso vibra, costante, infondendo vivacità e mitigando così l’astrarsi chitarristico nel post-rock. Quasi settanta minuti di obnubilato intimismo e rappresentazione di una bellezza a volte sfuggente, sfumata, che vuole farsi ammirare e restare nel cuore, affranta eppure radiosa. Uno dei dischi più significativi del 2017.