7.5
- Band: STATE OF NON RETURN
- Durata: 00:43:03
- Disponibile dal: 03/05/2024
- Etichetta:
- Trepanation Recordings
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A volte è meglio non sapere (troppo).
I bolognesi State Of Non Return, ad esempio, sono avari di informazioni: di loro si conoscono i nomi dei componenti (un trio), l’anno di nascita della band (2016), il fatto che il bassista (Diego Ruggeri) provenga dai Ropes Inside A Hole, e che l’etichetta responsabile della distribuzione del disco, l’inglese Trepanation Recordings, ha da poco terminato le attività.
Meglio non approfondire, in ogni caso, e lasciare che sia il loro album di debutto a parlare, cominciando dalla copertina, quel frangersi di onde virato al grigio che riporta alla mente “Oceanic” degli Isis.
Il sospetto di trovarsi di fronte ad una copia fedele a alla band di Aaron Turner, tuttavia, viene prontamente smentito: nei suoi circa quaranta minuti di sviluppo prevalentemente strumentale (ma con misurati ed efficaci interventi vocali), “White Ink” si ispira certamente al post-metal dei primi anni 2000, ma sceglie un percorso originale, quello di adottare suoni ed arrangiamenti essenziali che lambiscono il post-rock esangue degli Slint, in un clima di incessante ed angosciosa attesa, ben tratteggiato dagli interventi di Tony Arrabito alla batteria.
Non mancano certo le accelerazioni, le virate brusche, i riff violenti, in “White Ink”; solo che questi momenti non hanno nulla di liberatorio. Ironicamente, il titolo del brano a cui spetta l’onore di aprire le danze (“Catharsis”, appunto) è ingannevole, un lento e cupo esercizio stoner concepito in una metropoli minacciata da un assedio, dove un reiterato e spettrale arpeggio post-punk si insinua nella composizione fino ad esasperarne l’atmosfera (già di per sè claustrofobica), quando invece la title-track oscilla indecisa tra la contemplazione predicata dagli OM di “Advaitic Songs” (da cui il trio, fra l’altro, ha tratto ispirazione per il proprio nome) e gli angosciosi vortici chitarristici dei Tool (eccellente il lavoro alla sei corde di Mauro Chiulli).
Profondamente cinematografici, gli State Of Non Return trovano in “Vertigo” il loro brano più compiuto (e il pezzo più vicino alla canonica forma canzone), un lungo piano sequenza che scorre su paesaggi desolati, con una malinconica melodia iniziale che esplode in un refrain rabbioso e avvolgente degno dei primi Deftones. “Pendolum”, tour de force di quindici minuti che si assume il compito di chiudere il disco, è infine un numero doom che si inerpica per una buona metà lungo i sentieri in penombra già percorsi dai Neurosis di “A Sun That Never Sets”, per poi spegnersi lentamente proprio quando tutte le previsioni (e le speranze) facevano presagire un’epica esplosione finale.
Fedele alle promesse dell’artwork, “White Ink” è quindi un disco inquieto che tuttavia scorre con una facilità sorprendente, e dietro la cui apparente essenzialità dei pezzi si nascondono architetture complesse di riff e di partiture ritmiche. Per chi scrive, è stato un album impossibile da ignorare dopo un primo ascolto, e crediamo che se siete appassionati delle suddette sonorità anche per voi sarà lo stesso.