7.0
- Band: STEEL PANTHER
- Durata: 00:48:09
- Disponibile dal: 01/04/2014
- Etichetta:
- Kobalt
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Irriverenza in quantità industriale, ecco che il carrozzone del Sunset Strip arriva alla terza svolta. “Pussywhipped” è l’opener giusta che introduce in maniera ottima il nuovo lavoro, frustata diretta e decisa, senza mediazioni in pieno stile Steel Panther. A seguire il singolone con cui l’album era stato presentato nei mesi precedenti, “Party Like Tomorrow Is The End Of The World”: cocaina e prostitute risuonano nel chorus che è già diventato hit obbligatoria nelle prossime setlist. “Gloryhole” è sicuramente il pezzo più riuscito del combo. Un’altra fantasia youpornica prende luce tra le liriche di questa terza frecciata di “All You Can Eat”. “There’s a place in France where the naked ladies dance. There’s a hole in the wall where you put cock and balls. But you never gonna know who’s sucking on the other side. It’s a boy or a girl or a lady-man ermaphrodite?”. Surrealismo pornografico che diventa l’emblema di “Bukkake Tears” con lo struggente “there’s some much love on your face” che imposta la prima ballad del disco, che suona come Bon Jovi e Aerosmith ma che funziona meglio come colonna sonora della propria erotomania. “Gangbang At The Old Folks Home” è quello che succede quando si va a consegnare una pizza il sabato sera e ci ritrova in un party tra vecchi amici, un po’ stravaganti se li si trova in un brano dei Poison, ma perfettamente normali in una produzione Steel Panther. Fin troppo onesti. Rispunta un po’ di blues e rock’n’roll in “Ten Strikes You’re Out”, che mantiene un discreto livello di divertimento e di qualità, senza far calare il ritmo che fino a qui è piacevolmente percorribile. “The Burden Of Being Wonderful” è invece un brano insipido, facilmente trascurabile, nonostante sia stato proposto come secondo singolo del disco. Fortunatamente il disco si riprende con “Fucking My Heart In The Ass”, dove qualunque logica va a farsi benedire, schiava di un senso che stenta ad essere chiamato tale. Poco importa. Il ritornello è già entrato nell’ascoltatore fin dal primo ascolto. Nota di merito per “You’re Beautiful When You Don’t Talk”, dove si narra del mito epico della donna perfetta, clichè e schitarrate da ballatone si fondono nel pezzo classico dove si ritrova tutta l’ultima parte degli eighties per i quali ancora in molti piangono la notte. “All You Can Eat” si chiude con un altro pezzo che non sfigurerebbe in ogni nuova setlist, da pugno alzato e un hey-hey-hey per “She’s On The Rag: “who wants blood on your cock, blood on your balls, flowing like a blowing niagara falls. She’s on the rag”. Siamo lontani dalla potenza espressiva e parodica di “Feel The Steel” e naturalmente non ci si poteva aspettare chissà quale innovazione o genialità da parte della formazione scopa-grupies per eccellenza, e “All You Can Eat” diventa proprio questo. Buone canzoni si alternano ad altre meno riuscite, riuscendo ad essere, se non altro, un ascolto obbligato per i fan – che non rimarranno delusi – ma che non dice granchè alla luce di quanto i Panther abbiano detto in passato. Ci sono i riff, ci sono i ritornelli da live, ci sono le tette e ci sono i culi. Cosa ci si poteva aspettare, dopo tutto?