8.0
- Band: STEVE HACKETT
- Durata: 00:55:49
- Disponibile dal: 25/01/2019
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Sony
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Avevamo parlato molto bene dello scorso lavoro in studio di Steve Hackett, che mostrava un’invidiabile volontà di mettersi in gioco, perseverando in una continua ricerca sonora mai abbandonata nonostante una carriera già leggendaria. “The Night Siren”, infatti, rappresentava un vero e proprio viaggio intorno al mondo, curioso e ricettivo, capace di cogliere le influenze di Paesi lontani, rileggendoli con la sensibilità di un musicista eccelso che vive nel suo tempo, in un mondo sempre più globalizzato. Un mondo in cui, però, si alzano ancora barriere, aumentando il divario tra coloro che amministrano le ricchezze del mondo e chi invece si mette in viaggio per avere un tetto sulla testa e la speranza di una vita migliore.
Sia da un punto di vista tematico che musicale, “At The Edge Of Light” rappresenta la naturale prosecuzione di quanto ascoltato con “The Night Siren”, senza però esserne una copia, quanto piuttosto una vera e propria evoluzione. Partiamo dal messaggio, prima di passare alla musica vera e propria: “The Night Siren” voleva scuotere le coscienze, catturare l’attenzione di chi troppo spesso volge lo sguardo da un’altra parte; il nuovo album, invece, appare più cupo, come se Hackett fosse costretto, suo malgrado, ad ammettere una parziale sconfitta di fronte ad un mondo che non sembra avere intenzione di cambiare direzione. Non si tratta, però, di un messaggio di disperazione, perchè sebbene il cielo sia sempre più plumbeo e nero, la luce ancora non si è spenta, e Hackett vuole comunque lasciarci con un messaggio di pace e speranza.
Anche musicalmente “At The Edge Of Light” si connette con il suo predecessore, abbracciando in maniera netta lo spirito della World Music, assorbendo le sonorità incontrate nei lunghi viaggi intrapresi dal chitarrista, invitando musicisti a condividere la sua visione, e portando strumenti inusuali in un contesto occidentale (soprattutto in ambito rock). Non è un approccio innovativo e, in questo senso, il suo ex compagno di viaggio, Peter Gabriel, aveva già fatto tantissimo in passato, ma Hackett adatta questo metodo alla sua eccelsa musicalità e alle sue radici progressive che, al contrario del resto dei Genesis, non sono mai state rinnegate o abbandonate.
Non si immagini, però, un lavoro giocato solo sulle atmosfere esotiche da villaggio vacanze: il viaggio di Hackett abbraccia tutto il mondo, da Oriente a Occidente. “At The Edge Of Light”, ad esempio, mostra una spiccata vena sinfonica, figlia della nostra musica classica, che però si unisce alle tradizioni appartenenti ad altri popoli. Così “Fallen Walls And Pedestals” con i suoi archi cristallini ci riporta alla mente le atmosfere fredde della Russia; “Underground Railroad” ci mostra il volto spirituale dell’America; mentre “Shadow And Flame” si concede un passaggio in India, la melodia guidata dal sitar, con i suoi colori vivaci e i profumi speziati. Impossibile non citare, infine, anche “Under The Eye Of The Sun”, in cui Hackett sconfina nel territorio caro agli Yes, per un brano dalle pregevoli armonie vocali, che si appoggiano sul basso di Jonas Reingold, fortemente debitore del compianto Chris Squire.
Le due composizioni migliori, però, le troviamo in “Beasts Of Our Time”, brano malinconico impreziosito dal lavoro eccellente di Rob Townsend al sax, e soprattutto in “Those Golden Wings”, una vera e propria suite che conferma la vena creativa luminosa di Hackett. Maestose orchestrazioni, fughe di chitarra, voci bianche, assoli pieni di gusto e, soprattutto, un tema melodico ricorrente che cattura l’ascoltatore, dando coerenza ad un lavoro di scrittura che tanti polpettoni progressive si sognano.
Chiude il disco un trittico che va considerato nel suo insieme: prima “Descent”, plumbea, con il suo ritmo militare cadenzato e ossessivo; poi “Conflict”, in cui la chitarra sembra volersi liberare dalla sua prigionia; ed infine “Peace”, che ci riporta quel bagliore di speranza che Hackett non vuole abbandonare anche in quest’ora buia.
Un altro lavoro eccellente, quindi, reso ancora più sorprendente dal fatto di essere il ventiseiesimo (!) album del chitarrista. Se proprio volessimo cercare il proverbiale pelo nell’uovo, ci dispiace l’assenza della voce di Nad Sylvan, relegato nel ruolo di clone di Peter Gabriel durante le tournèe, e coinvolto solo in maniera marginale (se non del tutto assente) in studio. Si tratta solo di sfumature, comunque, che non appannano la lucentezza di un album consigliatissimo per chiunque ami la Musica, senza barriere, restrizioni o confini.