8.0
- Band: STEVE HACKETT
- Durata: 00:57:35
- Disponibile dal: 10/09/2021
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Sony
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Con alle spalle una carriera ormai cinquantennale, solo un grande amore, nonché fonte di ispirazione potenzialmente inesauribile, avrebbe permesso ad un artista vulcanico come Steve Hackett di dare una svolta alla sua carriera alla veneranda età di settant’anni. Questo grande amore, per Steve, è rappresentato da quella che, con un termine orribile, viene comunemente definita ‘world music’. Hackett, negli ultimi anni, si è scoperto viaggiatore e, accompagnato da sua moglie Jo, ha percorso il mondo in lungo e in largo, da est ad ovest, incontrando popoli, culture, strumenti e musiche antiche. Queste influenze hanno ravvivato la fiamma artistica di Hackett che da un po’ di tempo a questa parte sembra non sbagliare un colpo. Album come “The Night Siren” e “At The Edge Of Light” ci avevano portato il luoghi lontani, con un occhio di riguardo ai popoli che soffrono e che devono lottare giorno dopo giorno per la propria sopravvivenza; “Under A Mediterranean Sky” ci ha cullato sulle onde del Mare Nostrum, con scenari che noi italiani conosciamo molto bene; ed oggi ci ritroviamo ad intraprendere un altro viaggio con “Surrender Of Silence”, un album che spinge ancora di più sulle musiche del mondo, andando a costruire volta per volta composizioni ispirate dai luoghi visitati dall’ex Genesis.
Certo, non mancano gli episodi più classici, come “The Devil’s Cathedral” o “Fox’s Tango”, ma quando il chitarrista decide di lasciarsi andare alla scoperta delle bellezze del mondo, allora lì scatta la vera magia. Ci troviamo quindi ad attraversare le sterminate distese dell’Africa in “Wingbeats”; facciamo un salto nel gelo della Russia con “Natalia” splendida composizione che rilegge in maniera evidente il lavoro di compositori classici come Prokofiev (“La danza dei cavalieri”) o Tchaikovsky (“Lo schiaccianoci”); dopodichè ci rimettiamo in viaggio attraversando tutta l’Asia, con un brano che non potrebbe essere più esplicito fin dal titolo, “From Shangai To Samarkand”. Il racconto dei viaggi di Hackett viene accompagnato dalla sua chitarra, ovviamente, ma non da meno sono i contributi degli strumenti tradizionali, suonati da amici e artisti conosciuti direttamente nei luoghi d’origine delle composizioni. Altrettanto fondamentale il supporto della sua band, a partire dal suo braccio destro, il tastierista Roger King, passando per il basso di Jonas Reingold, i fiati di Rob Townsend, fino ad arrivare addirittura ad un trio di batteristi composto da Craig Blundell, Phil Ehart e Nick D’Virgilio. Un’ultima considerazione doverosa, infine, per le parti vocali, l’unico aspetto dell’album che non ci ha convinto pienamente: come di consueto per gli album solisti di Hackett, le parti vocali non sono appannaggio di un solo interprete, ma vengono divise, spesso con armonizzazioni delicate, tra lo stesso Steve, Amanda Lehman, Nad Sylvan e tanti altri. Una coralità che, a nostro parere, fa perdere un po’ di personalità, cosa che invece non avviene nei concerti di Hackett dove la presenza di un frontman primario (il già citato Nad Sylvan) rende la performance più diretta ed incisiva. Si tratta comunque di piccole sfumature, discriminate più dal gusto personale che non da oggettive mancanze. Quello che è certo è che Steve Hackett non ha nessuna intenzione di rinchiudersi nella sola celebrazione del suo glorioso passato, ma ha ancora voglia e – soprattutto – la capacità di imporsi come protagonista all’interno della scena progressive mondiale.