8.0
- Band: STEVE HACKETT
- Durata:
- Disponibile dal: 17/06/2003
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Edel
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Dopo quattro anni di attesa, vede finalmente la luce il successore del precedente “Darktown”. Un intervallo giustificabile, se pensiamo che nel frattempo l’ex Genesis ha deciso di tornare sul palco con una band elettrica, dopo ben sette anni di latitanza da determinate sonorità, e ha spulciato nel suo archivio, pubblicando uno box quadruplo dal titolo “Live Archive 70’s, 80’s, 90’s” nel 2001. Ma ha anche trovato il tempo di costituire un trio cameristico con suo fratello John e con Roger King, ed in più ha pubblicato il doppio live (e relativo DVD) “Somewhere In South America”.
Ma, al di là di queste annotazioni, va preso in considerazione l’accadimento essenziale: Steve Hackett ha trovato una band stabile. Un’esperienza che gli mancava dal lontano 1980, dopo di che nella fase di songwriting e nelle esibizioni dal vivo ha preferito affidarsi a diversi tastieristi (rimase al suo fianco ancora per un po’ Nick Magnus, in seguito rimpiazzato da Julian Colbeck, Aron Friedman e più recentemente Roger King) e a session man d’alta scuola. Non deve dunque sorprendere che le sonorità di “To Watch The Storms” richiamino prepotentemente i fasti dell’accoppiata “Spectral Mornings”/”Defector” (anni 1979 e 1980), frutto di un lavoro d’equipe e all’unanimità riconosciuti come i suoi capolavori. Spalleggiato dalla band che lo ha seguito nel suo ritorno elettrico dal vivo, Hackett ha registrato questo disco prevalentemente negli ultimi sei mesi, con il fidato tastierista Roger King, il batterista Gary O’Toole, il bassista Terry Gregory e il sassofonista-flautista Rob Townsend. Il risultato è un puzzle sonoro di grande suggestione ed intensità, se è vero che quella di Steve, a ragione, può fregiarsi del titolo di “musica totale”.
Certo, l’iniziale “Strutton Ground” ha forti rimandi con i Genesis di “Selling England By The Pound”, con i suoi cantati delicati e le sonorità bucoliche, così come la successiva “Circus Of Becoming”, con le sue sonorità circensi, richiama il folle mondo e le divagazioni folk del primo Peter Gabriel, ma si tratta di episodi isolati, seppur di altissimo livello. Già la seguente “The Devil Is An Englishman” sposa basi new wave a temi oscuri e a fughe dissonanti, mentre “Frozen Statues” funge da break, tre minuti di dialogo fra pianoforte e tromba, quasi un omaggio alle atmosfere care a David Sylvian. “Mechanical Bride” prende spunto dalla calcolata freddezza degli ultimi King Crimson, generando una song dal forte tasso tecnico dalla forte impronta scalare, evidente soprattutto negli unisoni fra chitarra elettrica e rullate strettissime. Fra siparietti di chitarra classica ed esperimenti tribali (la coinvolgente “The Silk Road”) trova posto il capolavoro assoluto dell’album, “Brand New”, un brano che coniuga arpeggi classici velocissimi, un cantato profondo ed aperture melodiche in stile Yes, il tutto cesellato da un bellissimo solo elettrico. Inutile aggiungere altro, se non il rimarcare che snobbare un lavoro del genere sarebbe un crimine.