7.0
- Band: STEVE LUKATHER
- Durata: 00:54:51
- Disponibile dal: 22/02/2008
- Etichetta:
- Frontiers
- Distributore: Frontiers
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Steve Lukather è forse uno degli artisti più presenti e prolifici dell’intera scena rock, contando centinaia di apparizioni fra dischi dei suoi Toto, album solisti e collaborazioni varie. Un chitarrista personalissimo, che con il suo stile ha contribuito a forgiare il termine-genere AOR, che ha portato una ventata di freschezza addirittura al Michael Jackson che fu, che ha interpretato con ironia la consuetudine degli album natalizi, che ha mostrato sempre una incredibile capacità di trovare il colpo giusto al momento giusto. Ha scelto il 2008 per pubblicare il suo terzo lavoro solista cantato, dove la sua voce e soprattutto la sua chitarra possano essere i veri protagonisti. Grazie alla Frontiers Records, etichetta sempre più valida, abbiamo tra le nostre mani undici pezzi di rock melodico fortemente influenzato dalla scuola Lukather, come ovvio, ma anche a sorpresa dotato della giusta verve moderna, in particolar modo nella scelta dei suoni di chitarra, aggressivi e gravi nelle parti heavy, e cristallini nelle parti più funky. Steve è considerato dai più un artista pop, ed è quindi lecito aspettarsi da lui pezzi dalla chiara impronta ‘easy’ (anche se qui di easy ce n’è ben poco) come la strepitosa opener “Ever Changing Times”, song dotata di un tiro maledetto e graziata da una melodia vocale super catchy, oppure come “New World”, una sorta di out take dal mondo Toto. Passiamo nel mondo del funky con la saltellante ed ironica “Jammin’ With Jesus”, ma soprattutto con la americanissima “Stab In The Back”, dove sembra di ascoltare il Prince dei tempi d’oro. Sullo stesso stile prosegue “How Many Zeros”, che possiamo vedere come la sorella gemella di “Jammin’ With Jesus”, con le sue armonie vocali e la sua freschezza sempre in primo piano. Tutta la classe ed il feeling di Steve si riversano completamente nella conclusiva strumentale “The Truth”, dove le tinte si fanno più malinconiche e dove la chitarra di Luke si piò sbizzarrire in commoventi fraseggi, accompagnati da un pianoforte da pelle d’oca. Il pezzo più commovente di un album che probabilmente farà parlare di se leggermente meno di quanto merita, a causa della crescente crisi del mondo discografico, ma che merita una chance perlomeno da parte dei seguaci del buon Luke. Undici pezzi sinceri e convincenti, una summa artistica di un musicista che può vantare ben pochi eguali.