7.5
- Band: STEVE LUKATHER
- Durata: 00:45:52
- Disponibile dal: 21/01/2013
- Etichetta:
- Mascot Records
- Distributore: Edel
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Transizione. Questo concetto viene spesso utilizzato in sede di recensione per giustificare un lavoro controverso, tutto sommato godibile, ma che nel giro di una manciata di ascolti rischia di finire nell’oblio. Non è il caso del celebre musicista californiano che torna a far vibrare le corde della sua chitarra a tre anni di distanza da “All’s Well That Ends Well”, mostrando in questa occasione di avere ancora parecchie frecce da lanciare dal proprio arco. Il songwriting appare più solido e maturo del suo diretto predecessore, in quanto ci troviamo ad affrontare (con piacere) un fiume di emozioni distillate in nove brani formalmente perfetti. Steve come sempre si discosta con arguzia e sagacia dagli ottusi ed irritanti esercizi di stile che a lungo andare hanno condotto in un vicolo cieco un genio bizzoso come Y.J. Malmsteen, plasmando una serie di melodie ispirate e di sicura efficacia. Tutte le composizioni risultano sufficientemente cangianti, includendo una serie di influenze che spaziano dal rock melodico tout court alla fusion più intensa, irrobustita da alcuni gradevoli input di matrice prog. Il buon Steve si avvale della preziosa collaborazione di alcuni pezzi da novanta della musica contemporanea, tra i quali citiamo il batterista Gregg Bissonette (che vanta anche una fugace apparizione nei Toto a metà degli anni ’90) ed il tastierista di estrazione funk Steve Weingart. Spetta al sinuoso ed algido groove di “Judgment Day” il compito di aprire quest’opera, proiettando l’ascoltatore in un’atmosfera severa e crepuscolare, progressivamente stemperata da un andamento incalzante e vigoroso che confluisce in un chorus energico e lievemente malinconico. “Creep Motel” invece è un blues astutamente rivestito da una gradevole patina pop di scuola Beatles, che acquisisce la sua massima efficacia all’altezza del ritornello, seguito da un intenso assolo di chitarra in coda. “Once Again” inizialmente indossa i panni della classica ballata per piano e voce, ma nel giro di poche battute acquisisce tutt’altro spessore, mutando in una pièce intrisa di sonorità adulte ed eleganti. Una cascata di tastiere ariose ci presenta “Right The Wrong”, episodio che percorre i sentieri tipici del pop colto nel quale emerge un marcato mood introspettivo narrato dalla gradevole ugola di Lukather, mentre “Transition” gode di un notevole preludio donato da un emozionante guitar solo radicato nel blues, che sfocia in un riffing aggressivo, speziato da accenti fusion emanati da eleganti fraseggi di tastiera. La sincope di “Last Man Standing” viene sapientemente architettata sopra un riff ispido, stemperato da un groove rilassato che flirta con il pop, scolpita da un assolo composto da poche ma intense note che richiamano lo stile inconfondibile di David Gilmour. L’incalzante riffing di “Do I Stand Alone” viene stemperato da una linea melodica ‘bonjoviana’ (perdonateci il termine astruso), che esprime il massimo nel suo meraviglioso bridge, antipasto di un chorus memorabile. “Rest Of The World” è un’atipica ed affascinante slow song nella quale scoviamo inequivocabili echi narrativi del miglior Hendrix, resa ancora più espressiva da delicati input di tastiere, che fanno da contraltare ai cori intensi di Renee Jones e Jack Raines che duellano nel guitar solo finale. “Smile” rappresenta l’epilogo di questo viaggio e, a discapito del titolo, ci troviamo dinanzi ad un commovente e vibrante soliloquio di chitarra, sorretto da un tenue ed evocativo tappeto di tastiere, meraviglioso epilogo di un disco consigliato a chiunque ami la buona musica a prescindere dalle formali etichette.