9.0
- Band: STEVE SYLVESTER
- Durata: 00:42:34
- Disponibile dal: 06/06/1998
- Etichetta:
- Lucifer Rising
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È impossibile parlare di Steve Sylvester senza quanto meno citare la sua creatura principale, la band con la quale l’abbiamo conosciuto e con cui ha inventato il cosiddetto ‘horror metal’, e più in generale il metal in Italia.
Sì, perché Steve (all’anagrafe Stefano Silvestri) sta ai Death SS come King Diamond sta ai Mercyful Fate, anche se qui la matematica non c’entra: c’entrano piuttosto la passione per l’occulto, per il cinema e la letteratura horror, l’amore per il rock duro e un talento istrionico e dal piglio teatrale inarrestabile.
E sebbene i punti di contatto tra i due gruppi (praticamente coevi) e i rispettivi leader siano svariati, in termini stilistici e di iconografia, la similitudine viene meno guardando – come in questa sede – alle carriere soliste: se il King Diamond solista nasce come una sorta di progetto ‘spin-off’, in continuità con i lavori dei Mercyful Fate, i dischi che Steve pubblica a suo nome intendono distaccarsi, come sonorità ed immaginario, da quanto fatto con i Death SS (che nel 1998, anno di uscita di “Mad Messiah”, erano freschi del potentissimo ed innovativo “Do What Thow Wilt”).
A voler essere più precisi, il debutto “Free Man”, il mini “Broken Soul” e il secondo ed ultimo (ad oggi) full-length “Mad Messiah”, ci mostrano un lato diverso del cantante pesarese, fino ad allora rimasto pressoché inedito al grande pubblico. Sylvester non si inventa dunque qualcosa che non è, piuttosto sceglie di dare forma ad altri sentori ed influenze che fanno comunque parte della sua formazione: sonorità molto meno orrorifiche, anzi a tratti persino solari, legate a doppio filo all’hard rock degli anni ‘70 e non solo, come vedremo.
In realtà qualche ‘germe’ c’era, pensiamo alla cover della melliflua “I Love The Dead” di Alice Cooper che troviamo sul debutto dei Death SS, “In Death Of Steve Sylvester”: in questo caso però la suadente e ironica ballad del vecchio zio Alice si è trasformata in un pezzo sghembo e duro, che odora di marcio soprattutto nella breve introduzione.
Questa volta invece Steve appende al chiodo il mantello da vampiro, pur non rinunciando per questo alla propria formazione di occultista, evidente sin dalla copertina, che lo ritrae mentre impersona l’esoterista e filosofo Aleister Crowley, immortalato in quella che è probabilmente la più iconica tra le sue foto.
E nonostante tutti i doverosi distinguo del caso, c’è ancora molto dei Death SS nella band che accompagna il cantante, infatti i musicisti che compaiono in veste di session sono per la maggior parte membri ed ex membri della creatura-madre di Steve, tra i quali (in ordine sparso) Freddy Delirio, Ross Lukather, Tomas Chaste e Felix Moon.
Ma soprattutto “Mad Messiah” registra la collaborazione con l’altra storica figura legata ai Death SS, quel Paul Chain che nei primi anni di vita del gruppo era stato l’alter ego di Sylvester, nonché chitarrista, organista e compositore. La sua partecipazione in veste di membro ufficiale al progetto, evidenziata dallo sticker promozionale posto sulla cover di “Free Man”, aveva – comprensibilmente – fatto drizzare le orecchie dei fan, speranzosi di un ritorno alla line-up storica dei Death SS, che come sappiamo non c’è mai stato.
Anzi, è proprio questo lavoro ad aver in un certo senso messo una pietra tombale sulla collaborazione tra i due artisti marchigiani, tanto che il materiale che ascoltiamo sul disco è stato registrato nel 1995, ma è rimasto nel cassetto per ben tre anni prima di vedere finalmente la luce.
Eppure questo è un disco solidissimo, vario e sfaccettato, dal sound pieno e vibrante, ottimamente prodotto e missato, capace di restituire nitidamente tutti gli strumenti e rendere giustizia anche alla sezione ritmica, particolarmente espressiva.
È una sirena antiaerea a darci il benvenuto ed introdurre “Sons Of War”, un pezzo cadenzato e roccioso dal finale allucinato, perfetta trasposizione in musica della gravità espressa nelle liriche, che guardano alla mastodontica “Children Of The Grave” dei Black Sabbath, ma sembrano andare oltre nel pessimismo, con un testo che ascoltato in questo momento riesce a dare i brividi (“benvenuti figli dei sepolcri/questo è il mondo che non possiamo salvare”). “Ancient Dreams” è un altro pezzo cupo, lento e sinistro, che cresce adagio per esplodere quando Steve urla “niente può cambiare i foschi piani del destino”; la struttura alterna pieni e vuoti, creando un perfetto senso di straniamento tipico dei sogni lucidi o dei dormiveglia fatti di strani incubi, complice l’eccellente lavoro alle chitarre di Alberto Simonini, l’altro membro ufficiale di questa formazione. Simonini – che ha militato per un breve periodo nei Death SS – è la storica ascia dei Crying Steel, e si divide con Paul Chain le chitarre sulla maggior parte dei pezzi.
La title-track merita una menzione a parte: l’inizio è affidato ad un brevissimo brano interpretato dalla cosiddetta Manson Family – “Always Is All Is Forever” – che sfuma in un frammento di discorso dello stesso Charles Manson, prima che un riffone di Paul Chain ci introduca nel pezzo vero e proprio; Steve cita la triade maledetta dei più famosi leader di culto americani, quindi Jim Jones e David Koresh – oltre, naturalmente, allo stesso Manson – figure diverse tra loro ed inquietanti, sebbene indubbiamente magnetiche. Sul piano strettamente musicale l’impronta del chitarrista pesarese si fa sentire, regalandoci trame pregevoli di chitarra solista, particolarmente libere ed ispirate sul finale.
Ma – come anticipato all’inizio – ci sono anche pezzi più leggeri: “The Shape Of Things To Come” è un’energica rivisitazione dell’elegante singolo garage beat di Max Frost And The Troopers, e “Love Has Torn Me Apart” è un brano hard rock molto piacevole, accattivante e ben costruito, sul quale segnaliamo il prezioso contributo di Morby dei Domine ai cori (che arricchisce quasi tutti i brani presenti in scaletta).
Un’altra cover – e ancora una volta un pezzo incredibilmente interessante – è “Heaven On Their Minds”, ovvero la supplica appassionata (e per certi versi terribilmente lucida) che Giuda fa a Gesù nel musical “Jesus Christ Superstar” di Andrew Lloyd Webber. Qui Sylvester si misura con un gigante quale è stato Carl Anderson, ma sceglie intelligentemente di fare totalmente suo il brano, senza per questo togliere una virgola della drammaticità che trasmette. Il mastermind opta per una cover perfetta rispetto al tema dell’album, riproponendo coraggiosamente un brano che esce completamente dall’ambito metal, esattamente come la già citata “The Shape Of Things To Come”. Nessuna scelta ovvia, così come pensiamo dovrebbero essere sempre le cover, che diversamente hanno ben poco senso di esistere.
Concludiamo questa piccola analisi con “Speed Of Life”, che chiude magnificamente un disco molto sottovalutato: anche qua hard rock e (stoner) doom si fondono perfettamente, e Steve si dimostra (ancora una volta) graffiante e convincente anche in territori musicali un po’ diversi da quelli tipici dei Death SS. Impossibile non citare ancora una volta Morby, al quale è affidata la coda del pezzo, e il lavoro congiunto di Simonini e Chain alle chitarre, che si muovono agilmente tra la pesantezza dei riff e la fantasia degli assoli.
In definitiva una prova memorabile, che prende molto dalla pericolosa acidità di quel lato a volte dimenticato della cultura flower power anni ‘60 che era tutto tranne che ‘peace&love’, integrato e filtrato dalla sensibilità unica di Steve Sylvester, supportato da alcuni tra i migliori musicisti dell’heavy italiano. Non solo, è anche un bel disco dall’inizio alla fine, un caleidoscopio di impressioni capaci di darti qualcosa su cui riflettere come di stampare a fuoco nel cervello i suoi ritornelli, una combinazione decisamente rara.
Da scoprire o rispolverare, possibilmente nella versione fisica (con testi alla mano).