7.5
- Band: STEVEN WILSON
- Durata: 00:41:56
- Disponibile dal: 29/01/21
- Etichetta:
- Caroline Records
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Caro Steven, questa storia del pop deve esserti davvero andata di traverso. Eh si, può anche darsi che non se ne sia più fatto una ragione. Eppure – diciamo noi – il suo pubblico dovrebbe conoscerlo bene: “To The Bone” era stato infatti un mezzo passo falso per molti e aveva dimostrato, anche e soprattutto dal vivo, di godere di un’inevitabile sconfitta esplicita, soprattutto se posto a confronto coi vecchi pezzi del compositore inglese, emblema del progressive britannico e ancora legato – almeno per molti – ad un passato più heavy e psichedelico.
Il cosiddetto pop (qualunque cosa questa etichetta possa determinare) bisogna saperlo fare, non è certo così semplice, e non basta metterci dentro i contenuti che, ancora una volta, sbattono in faccia la wasteland cognitiva in cui ci ritroviamo a (con)vivere. Il concetto della post-verità e delle fake news – che è stato caro fin dai Porcupine Tree e che si ritrovava nella sua carriera solista almeno da “Hand.Cannot.Erase” in poi – si integra ora con la lieve modifica sul tema di base: come il cervello umano si sia evoluto nell’era di internet. E di come una grande agenzia possa divenire il fondamento di tutta la catena produttiva del sistema, oltre che della distopica apocalisse che colpirà il mondo nel prossimo futuro. Le coordinate le conosciamo già.
Eccoci dunque a “The Future Bites”, nuovo tassello del mastermind occhialuto, e nuovo percorso verso la ridefinizione di ‘pop record’ wilsoniano. Dentro il lotto anche l’EDM maestro David Kosten, una truppa di doppie voci, cori e spoken word, il fido Nick Beggs, Adam Holzman e Richard Barbieri alle tastiere e un’altra bella compagnia super-prodotta, Elton John compreso. E anche un bel sito che mostra i prodotti brandizzati Future Bites in commercio, rendendo la proposta sempre più realistica e determinata.
Se l’opener “Unself” imposta una sorta di malinconica reverie introduttiva, purtroppo troppo breve, il caso della opener vera e propria “Self” è già un primo gomito, che ci fa ritornare alle terminazioni meno riuscite – ma più caratterizzanti – del precedente lavoro. Ancora una volta deludendo certe aspettative e/o pregiudizi più prog-oriented, o comunque consci che non è questo il miglior Wilson. Male o poco male non dovrebbe importare, almeno a livello di intenzioni, ma la qualità non è certo intossicante immediatamente. Fortunatamente “King Ghost” ripesca un po’ dal mazzo e si concretizza in un pattern trip-hop quasi ulveriano, rendendosi però capace di far drizzare le orecchie per la sua posizione ambivalente (da ripescare anche il remix dei Tangerine Dream). “There was a time when I have ambitions, now I have only inhibitions” ripete Wilson, ritrovandosi atomo consumatore massificato in quel sistema algoritmico, rintronato da input usa-e-getta, reso davvero dalle paure come quel ‘blank planet‘ di cui si parlava tempo fa. Perduto, bardo romantico (più che progressivo) dei tempi che corrono, cerca ancora di farlo capire esplicitamente. E lo fa nella ballad più easy-listening che la sua onestà – e la ricerca della semplicità – è riuscita a partorire, “12 Things That I Forgot”, che esce fuori a metà tra una sorpresa e un bentornato. L’esperienza con Aviv Geffen e i Blackfield, forse, ha dato il suo migliore contributo ad alcuni timbri di questo nuovo lavoro, facendosi spazio tra i beat elettronici e le attitudini pop-oriented. L’ultima “Count Of Unease”, infatti, è davvero un pezzo importante del puzzle, di cui, probabilmente, c’era davvero bisogno.
Difficile dare un parere del tutto oggettivo. Siamo qui di fronte ad un disco che cerca di differenziare la proposta, narrando le varie terminazioni psicologiche e cognitive a cui si è soggetti in questo panorama algoritmico. La ricerca del disco pop colto (o forse la vera essenza dell’ecletticità progressive) è ancora una volta il punto definitivo su cui si vuole incentrare la proposta di Wilson e non sembra più smuoversi da quel punto. Prince, Bowie, Peter Gabriel son spettri che non sembrano schiodarsi più di torno e il lavoro sulla produzione – divenendo il primo disco concepito e prodotto in Dolby Atmos – occupa tutto l’aspetto formale. Ce n’era bisogno? Forse no, e non certo per il contenuto. Eppure il tutto, pur criticamente sconfitti da certe aspettative, risulta funzionante e, in qualche modo, esercitante un certo fascino specifico. “Eminent Sleaze” è una divertita critica funkeggiante al sistema, in una chiave radiofonica non banale che colpisce fino in fondo, mentre “Man Of The People” è forse uno dei brani più convincenti dell’ultimo Wilson: una suadente ballad poggiata su un beat elettronico e una interpretazione tanto semplice quando curata in ogni minimo dettaglio, in grado di farci pensare “ok, Steven, ho capito dove vuoi arrivare” o semplicemente “ok, ce l’hai fatta“. La deboluccia “Personal Shopper”, purtroppo configurata come singolo, soffre incredibilmente di anacronismo, ma gode del pieno focus al progetto art-pop e dell’omogeneità con la proposta offerta, ricordando – per empatia – anche le trame meno riuscite di certi Nine Inch Nails dell’era “Hesitation Mark”. Sir Elton John permettendo, naturalmente…
E dunque? Beh, Steven Wilson non è la puttanella di turno del progressive – questo sembra certo – e probabilmente è uno dei pochi ‘autori’ in un mondo di cloni come quello pitturato dalle Kscope/Inside Out di turno. Soprattutto è un autore che ha dalla sua la posizione, la tecnica e la competenza per potersi permettere di andare per la sua strada, addirittura contro il suo stesso nome (o meglio, nomea). Non sarà la sua più riuscita, non sarà la più ricordata in futuro, non sarà la più opportuna per la maggior parte dei fan, eppure è piuttosto chiara. Prendere o lasciare. Oltre all’assoluto rispetto per il personaggio, per la sua musica… Si può comunque ancora goderne nella misura che più aggrada i nostri (pre)giudizi.