STÖNER – Stoners Rule

Pubblicato il 23/06/2021 da
voto
4.5
  • Band: STÖNER
  • Durata: 00:45:30
  • Disponibile dal:
  • Etichetta:
  • Heavy Psych Sounds

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Mettere insieme dei guru dello Stoner dalla chimica kyussiana, chiamarsi in maniera magniloquente Stöner (si, perfino con l’inutile umlaut), suonare nel Mojave nei mesi della pandemia: premesse da manna dal cielo. Roba da non vedere l’ora di comprare il vinile in pre-ordine e contare le ore prima che il turbine di sabbia si sollevi automaticamente dal giradischi, con un cilum lungo come un’autostrada a fare da nostromo.
Purtroppo per noi, amaramente, duole assai comunicare il nostro avvilimento di fronte a queste premesse disilluse: “Stoners Rule” rappresenta qualcosa che difficilmente potrà considerarsi degno dei nomi che fanno capolino qui dentro. Brant Bjork alla chitarra, come avevamo già avuto modo di considerare, è piuttosto indegno come unico chitarrista, ed è davvero raro è che faccia qualcosa che esuli dal riffettino blues scolastico che abbiamo già avuto modo di sentire nei suoi ultimi dischi (comunque di cuore e comunque apprezzabili per questo). Anche i soli, quando saltano fuori, sono davvero troppo poveri e troppo scontati. Pochissime idee, anche e soprattutto da Mr. Oliveri che, oltre ad un suono fin troppo pulito per i suoi gusti, fa semplicemente il suo senza dire granché (anche lui lontanissimo dagli standard della sua carriera solista). Alla batteria, Ryan Güt non riesce a dimostrare praticamente nulla che non si possa sentire da un batterista qualunque, perfino alle prime armi del blues distorto. Ripetitività che è ridondanza stantia e non loop lisergico, dinamiche assenti – proprio loro, quelle che potevano riportare in auge almeno il più lontano ricordo di una formazione storica della psichedelia deserta: tutto è infatti piuttosto piatto, coi medesimi suoni dall’inizio alla fine, e una voce che amaramente vuole svettare nel mix, allontanandosi dai vecchi colori del ‘vero’ stoner, e idee che sono davvero di una povertà aberrante. Con rispetto estremo per gli homeless californiani, sia chiaro.
Parlando da fan, naturalmente, non si può esulare da una certa delusione in merito a una qualità di brani che se fosse uscita a nome diverso avrebbe annoiato al terzo pezzo, quando va bene. Brani che, appoggiati ad un catalogo di tutto rispetto come quello della mitica Heavy Psych, soffrono incredibilmente di identità. Si, certo, alcuni riusciranno a trovare familiarità con i personaggi inseriti, col genere, con gli standard e con l’atmosfera del barbagianni in copertina, ma quello è un po’ poco per quello che ci si poteva aspettare. “Rad Stays Rad” è quasi imbarazzante come opener, sembrando la cover di una jam di quelle che si fanno quando si impara a suonare uno strumento. Pessima linea vocale, pessimo mix, niente cuore, niente dinamica. “The Older Kids” e il suo ‘special’, che non è un solo, che non è un cambio, che non ha una dimensione melodica (e nemmeno armonica) interessante, è l’emblema di un songwriting scontato e sempliciotto.  Qualche ritornello azzeccato si trova qui e là, ma è veramente una caccia al tesoro che stanca dopo poco. Anche qualche giro blues carino fa anche piacere sentirlo, come in “Own Yer Blues”, ma poi arriva un solo e ci si accorge davvero che queste sono cose che vengono fuori in mezzo pomeriggio in una sala prove a Palm Desert. Forse un po’ pochino, davvero, soprattutto per un pezzo che dura sei minuti con una cosa che poteva essere detta in meno della metà. “Evel Never Dies” prova a risollevare i ritmi con Oliveri e in parte ci riesce, finalmente mettendo in campo un giro punk sporco e qualche trovata interessante, ma anche lì sembra tutta una posa dovuta e non c’è niente che possa permettere a un pezzo così di essere riascoltato. Condanna del disco è poi il finale di tredici minuti di “Tribe/ Fly Girl” che inizia proprio à la Kyuss e fino alla fine si spera di sentire la poesia del deserto distorto, come i vecchi tempi. Solamente per essere nuovamente disillusi. Inutilmente lunga e quasi senza cuore, diventa l’emblema del fallimento di un progetto che sulla carta metteva l’acquolina in bocca. E ci raccomandiamo di non farsi venire in mente “Whitewater” per non avvilirsi ulteriormente.
Dagli Stöner, emblemi della storia dello stoner, questo è davvero ingiustamente troppo poco. E anche le droghe visionarie nulla potranno fare con questo pugno di sabbia che è solo polvere incapace di diventare turbine.

TRACKLIST

  1. Rad Stays Rad
  2. The Older Kids
  3. Own Yer Blues
  4. Nothin'
  5. Evel Never Dies
  6. Stand Down
  7. Tribe / Fly Girl
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