9.5
- Band: DEVIN TOWNSEND , STRAPPING YOUNG LAD
- Durata: 00:39:22
- Disponibile dal: 11/02/1997
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Self
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Gli anni Novanta. La seconda metà degli anni Novanta. L’approcciarsi del nuovo Millennio. La paura della Fine del Mondo. Anche l’heavy metal, in quel periodo, subì l’influsso planetario del Giorno del Giudizio targato 2000, per cui, anni prima di quella temibile data, iniziarono a sorgere diversi progetti musicali con lo sguardo prontamente e decisamente rivolto al futuro, quasi a volere esorcizzarlo mettendolo su sette note. E quali sono i primi tre nomi che vi vengono in mente, quando si parla di metallo futurista degli anni Novanta? Fear Factory, Meshuggah e Strapping Young Lad, semplice. Ma se i primi erano chiaramente ispirati dall’afflato epico, tecnologico, cibernetico e purificatore di un Terminator qualsiasi; e se i secondi, in una misantropia metrica ossessiva e straniante, esploravano le sinapsi e le terminazioni tra Ragione ed emozioni umane; ebbene, ecco arrivare i terzi – from Vancouver, Canada – ad ipotizzare un futuro completamente immerso nella frenesia, nella psichedelia e nel bruttume di un mondo collassato in una discarica putrescente, dove inermi androidi si trovano ad inneggiare ad una cosiddetta Nuova Carne: All Hail The New Flesh, la carne del Giovane Agnellino.
Devin Townsend, nel 1997 ancora poco noto personaggio dell’universo metallico, peculiarizzato da una voce fantasmagorica, da una personalità psicotica e da una iper-cinetica musicale da far spavento, decide di partorire una band vera e propria da quello che, solo due anni prima, era un abbozzo di progetto musicale, una one-man-band dal nome scelto appositamente per far scandalizzare il bigotto più bigotto: Strapping Young Lad, il cui debutto “Heavy As A Really Heavy Thing” aveva già fatto drizzare le orecchie all’allora illuminata Century Media Records. La stessa etichetta tedesca, però, crediamo che mai si sarebbe potuta immaginare la portata del successore di quell’album, ovvero il prodottino devastante e devastato che vi stiamo recensendo. “City”, titolo quanto mai azzeccato e giustamente visionario, aumenta la portata della band di un megatone di watt, presentando, accanto al malatissimo Devin, l’immenso Gene Hoglan alle pelli, Byron Stroud al basso e il fido Jed Simon all’altra chitarra. Il suono del futuro esce dai solchi di “City” compresso, compattato, fognesco, ributtante l’agonia di una metropoli, costretta a rivedere ogni mattina il suo cielo roseo e albeggiante sul putridume notturno – stink hot at 5 a.m. when the machine starts up again, the sky is still pink, dice la didascalia all’interno del booklet, in un preludio di liriche à la Rorschach di ‘Watchmen’. Otto tracce (più la melodica cover di “Room 429” dei Cop Shoot Cop) di industrial-cyber metal, in atteggiamenti promiscui con thrash, death e modern metal, il tutto reso apocalittico dalle vocals assurde di Townsend e del suo armamentario di coristi, effetti e timbri vocali. Non un episodio fuori posto, non un brano che non si possa estrapolare dalla tracklist e ascoltare a ripetizione a mo’ di mitragliata cauterizzante, non una traccia che nell’insieme se ne vada spersa per la sua strada: una metropolitana underground che parte dalle eutanasie di “Velvet Kevorkian” per sbocciare nel grigio mortifero e astratto di “Spirituality”, percorrendo un circuito d’estasi distruttiva attraverso i due inni SYL-iani “All Hail The New Flesh” e “Detox” e le bordate inafferrabili di “Oh My Fucking God”, “Home Nucleonics” e “Underneath The Waves”, per non parlare del terribile e sinuoso incalzare di “AAA”. Furia catastrofica, follia nichilista, sfogo caustico e irridente, visioni al neon: una Città scavata nel profondo e lasciata a terra sfiancata e ansimante, in un proprio crogiolo di sofferenza. Mai il futuro, in quanto nevrotico punto interrogativo, è stato musicato meglio. Monolite inamovibile.