7.0
- Band: SUBLIMINAL FEAR
- Durata: 00:48:54
- Disponibile dal: 01/04/2008
- Etichetta:
- Burning Star
- Distributore: Masterpiece
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Se siete anche voi tra coloro che si riconoscono nel vecchio adagio “non ci sono più i Soilwork di una volta” (ovvero gli autori di ottimi dischi come “The Chainheart Machine” e “A Predator’s Portrait”) segnatevi pure il nome dei Subliminal Fear, dato che potrebbe essere quello giusto per sopperire alle ultime scialbe prove di “Speed” Strid e soci. Il quintetto pugliese, qui al debutto grazie all’interessamento dell’ellenica Burning Star, si muove infatti su coordinate swedish death-thrash che richiamano alla mente, oltre alla prima incarnazione dei già citati Soilwork, anche i seminali At The Gates e gli ultimi Darkane: su questo substrato musicale tuttavia i nostri innestano diverse aperture pulite e filtrate che, lungi dallo scadere nella ruffianeria fine a se stessa, risultano come tasselli fondamentali all’interno di un mosaico sonoro cesellato seguendo la tradizione dei migliori Into Eternity. Un plauso in questo senso va in particolare al singer Carmine, autore di una prestazione davvero sopra le righe dietro il microfono, ma anche il resto della band dimostra, oltre ad un’ottima padronanza strumentale, di aver ben appreso la lezione dei maestri svedesi, per un risultato finale che riesce nel non facile compito di accontentare sia i puristi del Gothenburg sound “prima maniera” che gli amanti delle sue contaminazioni più moderne. Se infatti i primi troveranno pane per i loro denti di fronte all’assalto frontale di canzoni come “Insane Archetype” e “Crawls into the Depths”, i secondi invece non mancheranno di apprezzare le più dilatate “The Silence That Remains” e “I’ve lost my Control” o le atmosfere della conclusiva title-track, il cui utilizzo massicio di sintetizzatori arriva a ricordare le pulsioni moderniste dei Mors Principium Est. Da segnalare inoltre l’ottimo cover artwork ad opera di Davide Nadalin (già al lavoro con Blinded Colony e The Duskfall), attraverso il quale viene trasposto egregiamente a livello visivo il senso di desolazione e decadenza contenuto a livello lirico. A conti fatti ci troviamo dunque di fronte ad un disco ben suonato e ben prodotto, il cui unico limite, se di limite si può parlare all’interno dell’odierno panorama melo-death, è ascrivibile ad una certa mancanza di originalità di fondo, elemento questo tuttavia che non compromette la resa complessiva di un album che rimane consigliato, al di là di ogni facile campanilismo, a tutti i fruitori delle sonorità “made in Gothenburg” in generale e in particolare a chi è rimasto deluso dalle ultime prestazioni dell’ormai ex-gruppo di Peter Wichers e Ola Frenning.