8.0
- Band: SUM 41
- Durata: 00:55:02
- Disponibile dal: 29/03/2024
- Etichetta:
- Rise
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Tutto ciò che ha un inizio ha una fine: dalla teoria dell’impermanenza all’universo di Matrix questo è un principio ineluttabile, ma nel caso dei Sum 41 tale massima si è probabilmente realizzata prima del previsto. Tra le principali protagoniste della scena pop punk d’inizio millennio – raccogliendo insieme ai Blink 182 e ai Simple Plan il testimone da Green Day e The Offspring – la band canadese ha saputo distinguersi fin dall’ancora acerbo EP “Half Hour Of Power” per un approccio più metal (come dimenticare il duetto con Kerry King su “What We’re All About” e le parodie maideniane?), anche se nel corso dell’ultimo quarto di secolo ha vissuto alti e bassi sia a livello discografico che personale.
Sia come sia, per chiudere in bellezza – in attesa dell’immancabile reunion – Deryck Whibley e soci hanno deciso di congedarsi con un doppio album che racchiude le due anime della band: quella più prosaicamente pop punk (“Heaven”, stilisticamente vicina ai primi album) e quella più metal (“Hell”, che invece si pone in continuità con gli ultimi lavori).
Inutile dire che il primo capitolo è quello che farà scendere più di una lacrimuccia ai fan di vecchia data: anthem come “Landmines”, “Dopamine”, “Not Quite Myself” e “Bad Mistake” si pongono in continuità con “Over My Head”, “Still Waiting” e “We’re All To Blame”, restituendoci la versione più scintillante dei Sum 41 che temevamo di aver perso con la temporanea uscita del chitarrista Dave Brownsound; ben vengano quindi anche il fan service condito di easter egg (citiamo “Johnny Libertine” che omaggia i NOFX e l’autocitazionismo della strofa “Maybe we’re all to blame” da “Future Primitive”), mentre l’unico episodio sotto la media è la conclusiva piano-ballad “Radio Silence”, non a caso assimilabile al meno felice periodo di “Underclass Hero”.
Il secondo dischetto, aperto dalla sgrammaticata intro “Preparasi A Salire”, è quello viceversa meno sorprendente per chi ha seguito la band nell’ultimo decennio, ma nonostante manchi il fattore nostalgia ha comunque dei buoni spunti.
“Rise Up” è perfetta per incendiare il palco (letteralmente, visto l’abbondante uso di fuoco e fiamme nei loro show) con i suoi riff di punk metallizzato, così come “Stranger In These Times” e “You Wanted War” sono la cosa più vicina a “Chuck” sentita nelle ultime due decadi.
Anche qui non tutto è perfetto -“I Don’t Need Anyone” suona un po’ troppo vicina al metal iper prodotto dei Pop Evil, “House Of Liars” riecheggia il trascurabile “Screaming Bloody Murder” – ma la mezz’ora scarsa scorre veloce, compresa un’inaspettata cover di “Paint It Black” dei Rolling Stones, fino alla linkinparkiana conclusione di “How The End Begins”, dove la proverbiale lacrimuccia di cui sopra stavolta scende pensando al futuro e non al passato.
Con una tracklist leggermente più corta e una copertina decente rasenteremmo probabilmente la perfezione del genere ma, visto il senso simbolico dell’operazione, ben vengano queste dieci più dieci tracce, perfetto distillato di carriera e definitivo (?) commiato per una delle band più iconiche nella scena pop punk del terzo millennio.