7.0
- Band: SUMAC
- Durata: 01:06:09
- Disponibile dal: 21/09/2018
- Etichetta:
- Thrill Jockey Records
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Difficile definire in maniera univoca cosa sia lo sludge nel 2018, specie alla luce di un lavoro come questo. Che i Sumac appartengano al filone più derivativo del genere, quello che attinge a piene mani al post rock e a (più che) occasionali pennellate estreme è evidente fin dai loro albori, eppure questa sorta di klezmer oscuro, violento e parimenti emozionante mostra nel loro caso un’evoluzione e al tempo stesso nuove derive continue; al punto da segnare ormai la strada per diverse nuove leve, per quanto si può notare nel sottobosco di questo genere. La formula è sempre la solita: brani lunghi, lunghissimi, vere e proprie suite cangianti e tra loro abbastanza differenti, pur all’interno di una struttura che mantiene la sua peculiare identificabilità. Abbiamo l’avvio violentissimo di “The Task”, in cui Aaron Turner e soci puntano a immergerci in un gorgo avvolgente e aggressivo, a metà strada tra il post black metal e una certa pomposità quasi prog (fate caso alle chitarre che emergono squillanti dietro il muro sonoro principale), poi le dissonanze ritmatissime di “Attis’ Blade”, in cui i Sumac sembrano quasi diventare la faccia oscura dei Godspeed You! Black Emperor; in uno strano incrocio tra le dilatazioni strumentali – prossime in certi momenti alla psichedelia anni Settanta – e il cantato praticamente death. È forse più corretto parlare di blackgaze, quindi, per definire questo lavoro? Se guardiamo agli inserti strumentali di questa stessa traccia o della conclusiva “Ecstasy Of Unbecoming” il pensiero va spontaneamente verso lo spettro sonoro di fenomeni decisamente “altri” e pensiamo in particolare ai My Blood Valentine, o ai loro conterranei Deafheaven in versione estremamente rallentata; e resta solo l’estenuante e ossessiva “Arcing Silver” a mostrare l’eredità primeva di Neurosis & co., sotto la guida di un basso pulsante e di un’abrasività straziante. Forse, semplicemente, chi l’ha vista lunga è stato Walter Hoeijmakers, ossia l’organizzatore del Roadburn: il festival che ha perso ormai ogni etichetta per definire il genere prevalente proposto, ma dove guarda caso i Sumac e tutte le band succitate si sono esibite in questi anni. E allora fate crescere la vostra barba, alzate i risvoltini e ignorate le classificazioni: se le maratone sonore con il giusto tasso di intellettualismo hanno il vostro favore, anche questo loro nuovo lavoro colpisce nel segno.