7.0
- Band: SUMAC
- Durata: 00:59:44
- Disponibile dal: 02/10/2020
- Etichetta:
- Thrill Jockey Records
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La proposta dei Sumac è un viaggio senza tempo all’interno del variegato universo sludge, inteso come posto o come preferite definire il limbo in cui si muovono. Una diapositiva sfocata ritrovata in casa, di cui non ricordiamo la provenienza e che cerchiamo di interpretare; o ancora un dipinto evocativo come quelli realizzati da Aaron Turner, uno dei quali non a caso suggella come copertina questo e tutti i dischi precedenti della band. Distopie e dissonanze che saltano tra i nostri sensi senza soluzione di continuità, con la costante di un magma ribollente che ci investe con forza; questa è la chiave di lettura di questo trio lontano da ogni idea di compiacimento, almeno verso il pubblico, anche se per certi versi “May You Be Held” si può considerare, paradossalmente, il loro album più accessibile. Non perché le melodie qui presenti siano facili o meno disturbanti, anzi: “A Prayer For Your Path” ha molto più in comune con i Sunn O))) che con i Russian Circles o gli Isis, per citare le band con cui i musicisti qui coinvolti ci hanno incantato in precedenza; oppure, per restare su esempi specifici, i due mastodonti nascosti dietro la titletrack e “Consumed” non sono certo brani dalle prospettive radiofoniche. Al tempo stesso è come se i Sumac, superata decisamente, al traguardo del quarto full-length, l’urgenza espressiva, con tutte le limature che abbiamo potuto notare in precedenza, abbiano sublimato tutte le esperienze da cui provengono, le fonti di ispirazione e non si vergognino, per così dire, di mostrare le proprie debolezze agli ascoltatori. C’è così spazio per droni e colate laviche, come detto, ma anche per passaggi più dissonanti ed evocativi, come nel post rock sui generis di “Laughter And Silence”. Al contempo la cavernosa e straziante voce di Turner, chissà se guardando più ai Twilight che agli Isis, si fa espressione di dolori interiori e insieme universali, suggellando al meglio un disco non facile da assimilare o persino da ascoltare d’un fiato; ma che mostra la differenza tra indossare una spilla al bavero con scritto “I love post-metal”, o aver definito, nel corso propria carriera, i canoni di una decostruzione stilistica.