7.5
- Band: SUMAC
- Durata: 00:58:34
- Disponibile dal: 25/04/2025
- Etichetta:
- Thrill Jockey
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Un disco come “The Film” era probabilmente nell’aria da sempre, sotteso alle profonde corde artistiche ed espressive di una band come i Sumac.
È la potenziale colonna sonora dell’esistenza post-moderna, all’interno della cui alienazione e smarrimento, i tre canadesi fondono la loro ricerca musicale con il percorso dell’artista afroamericana: poetessa, musicista jazz sperimentale, attivista… Moor Mother diventa la voce perfetta per costruire, sulle trame di chitarre dissonanti,in grado di toccare in questo lavoro i momenti più drone e dilatati nel percorso dei Sumac, narrazioni che colpiscono al cuore.
La ‘voce’ scelta è principalmente quella dello spoken word, declinata però con una ricchezza espressiva che parla più di Diamanda Galas – non in termini di estremismo, quanto di potenza – che non di teatro cantato. L’intersezione tra le due dimensioni, musicale e vocale, è quasi perfetta, un cercarsi e modellarsi continuo, così che i brani più pesanti, con il basso di Brian Cook a colpire come un maglio d’acciaio, vedono la poetessa esprimere lo strazio con le sue note più acide, quasi hip-hop nei termini più storici del genere.
Impossibile non notare una citazione nelle note che accompagnano l’album: “’Camera’ è un brano che parla della dura realtà di una rivoluzione non solo trasmessa in televisione, ma anche fatta scorrere, scaricare, guardare in streaming e filmare sui cellulari”. Il riferimento è chiaramente Gil Scott-Heron e la sua iconica poesia musicata, per molti ritenuta il punto zero stesso del rap, nella sua accezione più politica e colta, e che qui viene trasfigurato in strati di voci, anche campionate ed effettate, posate su uno strato di noise/jazz/sludge quasi assordante.
Non mancano, in questo attacco frontale e insieme meditato, momenti di pura adrenalina sonica, con le consuete accelerazioni e le roche aggressioni vocali di Aaron Turner a riportare in zona sludge alcune delle tracce del disco, in un contrasto che aumenta il senso di straniamento e violenza (“Scene 2: The Run”).
I diversi featuring vocali offrono ulteriori elementi di straniamento e tensione, dagli inquietanti gorgheggi di Candice Hoyes su “The Truth Is Out There” al suadente, oscuro romanticismo messo in campo in forma rappata da Kyle Kidd nel brano successivo; parimenti, nel gioco dei contrasti, i brani più brevi intervallano rumorismi, effetti e sperimentazioni – ulteriori, per la precisione – rispetto ai mastodonti in tradizione Sumac che costituiscono l’ossatura inscalfibile dell’album.
Fino all’esplosione devastante, ma necessaria, della conclusiva “Scene 5: Breathing Fire”: una Summa(C) di tutto l’impatto, sonoro e poetico, che ci ha attraversato i timpani e l’anima precedentemente, capace di dimostrare come non siano necessariamente gli elevati bpm a tirare schiaffi in faccia.
Un album da ascoltare tutto di fila, non senza fatica, dato che l’ora scarsa di durata pare riverberarsi su strati sempre diversi, divergenti, cui dedicare attenzione ascolto dopo ascolto: è la consueta cifra stilistica dei Sumac, che abbiamo spesso trovato anche un limite… ma che qui porta il risultato, se non all’eccellenza, a una promozione piena. E all’apprezzamento per una sperimentazione non facile, ma nemmeno banalmente ‘intellettuale’. È insomma uno sforzo che ripaga, allorché ci si lascia trasportare in una dimensione che travalica decisamente i confini di un ‘semplice’ disco.