7.5
- Band: SUMAC
- Durata: 01:16:08
- Disponibile dal: 21/06/2024
- Etichetta:
- Thrill Jockey Records
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Dritti per la loro strada sghemba, dissonante e assordante, sempre più incuranti della forma canzone, i Sumac tornano con il loro disco più alienante, e forse più riuscito.
L’opener basterebbe a contenere e descrivere l’intera produzione del trio; con una durata degna dei Sunn O))) – con cui non sono mai mancati elementi in comune – i Sumac riescono a scagliarci in faccia uno tsunami di violenza dove non sono, ovviamente, i bpm a farla da padrone, quanto una crudezza disarmante tra spasmi quasi zorniani e una grana abrasiva DIY.
I feedback raggiungono durate e frequenze spasmodiche, quasi al limite della sopportazione, mentre Aaron Turner estremizza l’inseguimento di profondità cavernose con l’ugola: è musica nata per far male e che riesce pienamente nell’intento. Inevitabilmente non manca una spiccata componente oscura, quasi mistica, che sembra sempre riportare all’esperienza di Aaron nei Twilight, più che alla pura dimensione sludge, di cui comunque i Sumac si confermano interpreti tra i più coerenti e pesanti; il loro segreto è non perdere mai di vista la creazione di dinamiche, un elemento spesso trascurato a favore del puro impatto alienante, mentre cui viene declinato anche solo con brevi passaggi di sola chitarra, quasi disarmanti, o accelerazioni tirate all’osso, quasi hardcore. Togliere per aggiungere, insomma, e non è poco.
In termini di lunghezza, il resto del disco non è meno estenuante; i due brani centrali, con ‘solo’ una dozzina di minuti a testa, si focalizzano maggiormente sull’impatto. “Yellow Dawn” è il brano insieme più dissonante e riff driven, in un contrasto efficace, mentre “New Rites” è puro groove, con il cantato che si alterna tra un approccio brutale e improvvisi picchi quasi estatici. In una simmetria che non vuole lasciare scampo, “The Stone’s Turn” chiude il disco superando nuovamente i venti minuti di durata, puntando a sfiancare l’ascoltatore con un deforme rituale pagano guidato da una chitarra stoppata, quasi ‘grattuggiata’, su cui dilatazioni noise e rullate di batteria prendono forma come scoppi euforici.
È un ascolto tutt’altro che facile, specie se si lascia fluire nel corpo l’ondata di malessere sottesa alle lente, disarmanti battute. Ma se ci si arrende all’inseparabile consapevolezza del dolore umano, “The Healer” non può lasciare indfferente. A dispetto dell’ironia sottesa nel titolo, perché la verità è che non c’è scampo alcuno.