7.0
- Band: SUNN O)))
- Durata: 00:32:59
- Disponibile dal: 04/12/2015
- Etichetta:
- Southern Lord
- Distributore: Goodfellas
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Sintesi: un concetto che mai si è applicato ai Sunn O))), e la cui assenza li ha sempre fatti amare (o odiare) alla follia. La curiosità che sviluppa leggere una durata di soli 33 minuti per un loro full length, dunque, era altissima. Nei sei anni trascorsi dall’ultimo Monolith & Dimensions, perfetto compendio del loro linguaggio espressivo, il combo di O’Malley e Anderson ha esplorato strade nuove, atipiche, estremamente rarefatte, in particolare nella collaborazione con gli Ulver in Terrestrials; e se sinceramente la somma delle parti non sembrava proprio ottimale un anno fa, il fatto che Kannon si muova sulle stesse coordinate poco aggiunge a quel mezzo passo falso e l’esito lascia un po’ di amaro in bocca. I tappeti sonori restano ben al di qua della soglia di dolore, non solo metaforico, a cui eravamo abituati, a favore di una costruzione dei brani più scontata, dove la durata dei feedback si riduce parecchio, suggerendo quasi un inaspettato avvicinamento alla forma canzone. Questa relativa semplificazione non è un male, per carità, ma emerge un po’ troppo pedissequa l’impronta degli Earth, che non a caso erano stati la fonte di ispirazione primaria dei due musicisti. A compensare il relativo passo indietro delle chitarre, si fa sempre più organica la presenza nei brani di Attila Csihar, che se nei Mayhem e nelle precedenti prove toccava i lidi del Male Assoluto, qui percorre strade salmodianti, sussurrate, vicine a un mantra oscuro, in cui l’evidente fascinazione per il misticismo orientale che pervade da tempo i Sunn O))) si affaccia con forza. Il secondo movimento dell’album, che è in fondo una suite in tre parti, è la chiara summa di questa nuova dimensione sonora; negli usuali canoni di un ultra-slow tempo, i riverberi della chitarra si cadenzano quasi come riff dilatatissimi, in cui la voce dell’officiante emerge per la prima volta come canto tonale: questo monaco oscuro chiama al supplizio, che ci giunge nelle forme di una vibrazione affilata come una lama sacrificale nel finale. E questo nuovo marchio di fabbrica riemerge nella terza traccia, con una delle chitarre a interpretare il ruolo e quasi le sonorità di un radong tibetano, su cui la gola di Attila tesse un percorso in parte meditativo, prima dei lancinanti strappi vocali di vecchia fattura, che paiono riavvicinare parzialmente ai vecchi lidi l’album. Ma tutto termina troppo presto. Complessivamente un prodotto discreto, che da una parte necessitava decisamente di una maggiore dilatazione e dall’altra riesce comunque a lanciare un’esca di curiosità per gli sviluppi futuri; discreto è però poco, per chi ci ha abituati ad ascolti totalizzanti, disturbanti e quasi insostenibili sulla lunga distanza.