8.5
- Band: SUNPOCRISY
- Durata: 00:54:08
- Disponibile dal: 15/02/2012
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“Iniziate a respirare,
Tutte le risposte che state cercando
Sembrano così lontane,
ma sono sempre davanti a voi”.
A cavallo tra sogno di libertà e meditazione zen. Come rinascere all’improvviso e accorgersi di avere ali giganti e poter volare. L’esplodere di emozioni sopite che lascia basiti. La percezione dell’ascolto musicale come intimo e solitario godimento. Evocazioni di azzurre immagini ondeggianti che iniettano pace.
La musica dei Sunpocrisy, combo bresciano che già in passato abbiamo incensato su queste pagine grazie al Top Demo che fu il loro “Atman”, riesce a scavare magicamente nell’encefalo dell’ascoltatore, neanche tanto subdolamente, bensì penetrando con violenza, fino ad arrivare a toccare i nervi più scoperti e vulnerabili, liberando sensazioni che per una volta non ci rimandano pulsioni negative e scontate, oppure scoppi e sfoghi d’ira; aprendo invece le sinapsi e preparandole ad un viaggio che, durante l’ora di questo strepitoso debutto autoprodotto, intitolato “Samaroid Dioramas”, sarà straniante, introspettivo, commovente, avvolgente e, in definitiva, pienamente illuminante. Ci siamo soffermati apposta, in questa lunga partenza di recensione, sul fattore emozionale dell’album qui recensito, in quanto crediamo stia in ciò il segreto della comprensione di un lavoro ambizioso ed enorme – ripetiamo: magnifica autoproduzione! – come la nuova opera dei ragazzi lombardi. Da “Atman”, il quartetto divenuto nel frattempo sestetto – aggiunti in formazione un terzo chitarrista, Marco Tabacchini, ed un addetto ai synth/visuals, Stefano Gritti – ha quasi completamente abbandonato le influenze progressive-death degli esordi, dimenticandosi soprattutto gli Opeth in soffitta. E quindi, di conseguenza, ecco le coordinate dei Sunpocrisy elevarsi a potenza nei dintorni di Tool, Meshuggah, The Ocean, Cult Of Luna, Between The Buried And Me, aggiungeremmo ultimi Katatonia, più che altro per l’apporto atmosferico/sognante che la band instilla nelle sue composizioni. Composizioni che, dilatandosi nei meandri di un concept filosofico e colmo di metafore, risultano talmente profonde ed inebrianti da creare quasi dipendenza. Ovviamente, solo in chi riesce a capire ed apprezzare appieno il genere, ovvero un post-metal atmosferico e tecnico, con rimandi allo stoner, allo psych, al djent, al semplice rock acustico: insomma, dopo l’ipnotico intro rumoristico “Apoptosis”, basteranno le lunghe tracce iniziali “Apophenia” e “Φ – Phi” per farvi comprendere da che parte starete durante la fruizione di “Samaroid Dioramas”, se autoindulgenti poeti-sognatori oppure indifferenti blocchi di marmo; nel centro-tracklist, tutto si svolge più rapidamente, arrivando veloci alla cuspide violenta chiamata “Samaroid”, che precede le altre due suite conclusive. Un’onda, quindi, un incedere che si ravviva nel suo insieme, tra picchi e abissi, così come avviene se si prendono in considerazione i singoli brani, costruzioni organiche e vive di note infilate con maestria e gusto eccezionali una dietro l’altra. La sezione ritmica composta da Carlo Giulini (spettacolare!) alla batteria e Gabriele Zampieri al basso si ritaglia spazi da protagonista, sebbene il grosso dell’imprinting nel fruitore lo svolgano i mega-riff e le melodie generate dalle tre chitarre, tappeto perfetto per le vocals – clean e growl – di un Jonathan Panada espressivo e dentro al 100%. E dunque riassumendo, ci si trova al cospetto di un disco incredibilmente maturo e competitivo nel genere di competenza così come al di fuori, e diremmo pure in grado di dare la paga a molti artisti di livello apparentemente superiore. E di tutto ciò è stata capace una formazione italiana, giovane, professionale e con le idee chiarissime, per di più senza contratto discografico e con canali di promozione fai-da-te. Ascoltate, provate, sperimentate, date loro una chance, se almeno una volta nella vostra vita la Musica vi ha dato un senso e un’emozione. Non serve neanche farsi delle domande, perché…
“Questo paesaggio é ciò che vi è dovuto”.