7.0
- Band: SVALBARD
- Durata: 00:44:16
- Disponibile dal: 06/10/2023
- Etichetta:
- Nuclear Blast
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Che negli Svalbard abbondassero le idee, e tutte ben chiare, è stato evidente sin dalla pubblicazione di “One Day All This Will End”, uno dei debutti più incisivi degli ultimi anni, ma anche un impegnativo metro di paragone per ogni successivo capitolo, con il suo curioso mix di blackgaze, dream pop e verve hardcore-punk. Eppure i ragazzi di Bristol hanno raramente perso tempo, tanto che con il nuovo “The Weight of the Mask” siamo già al quarto full-length in otto anni. Tra queste uscite discografiche, la band ha poi intrapreso un’attività live incessante, con tour in tutta Europa che hanno puntualmente potuto fungere da palestra per testare i nuovi pezzi.
Il quarto capitolo sulla lunga distanza dei britannici riparte quindi da dove il lavoro precedente – “When I Die, Will I Get Better?” (2020) – si era concluso, seguendo percorsi simili e al contempo attuando qua e là esperimenti verso soluzioni di più ampio respiro, senza comunque mai rinnegare del tutto quella vivacità hardcore che ogni tanto porta ancora a imprevedibili e frequenti cambi di ritmo e intensità. Questa volta viene coinvolto persino un violino, a cura del chitarrista/cantante Liam Phelan, dichiarata connessione con certo metal ‘romantico’ della terra di Albione (My Dying Bride) di cui i Nostri sono da sempre fan, nonostante la loro musica percorra generalmente altre coordinate. Non a caso, gli Svalbard continuano a mettere in mostra una loro interpretazione di ciò che oggigiorno viene comunemente definito post-black metal o blackgaze: se da un lato l’etereo lavoro di chitarra è spesso di pura matrice shoegaze e post-rock (rivista in chiave metal), dall’altro l’impronta ritmica guarda quasi sempre a formule più ‘terrene’, palesando nei momenti più rabbiosi la vecchia attitudine hardcore. Un mix abbastanza peculiare e tutto sommato ampiamente collaudato da un gruppo che ormai a volte sembra quasi voler unire Deafheaven e Touché Amoré, giocando la carta di una più spiccata orecchiabilità.
Non è però sempre facile fare coesistere certe aspirazioni con quell’estetica a tratti smaccatamente pop che il quartetto ogni tanto qui prova ad adottare; un elemento, quest’ultimo, che in qualche caso finisce paradossalmente per appesantire dei brani che sarebbero potuti essere più incisivi e disinvolti senza certe derive vagamente ampollose. A livello di atmosfere, da tempo i ragazzi amano guardare agli Alcest, mostrando una profondità e una purezza d’animo da persone sensibili, ma talvolta la ricerca di questa limpidezza può apparire sin troppo enfatica, al limite del caramelloso, soprattutto quando i ritmi rallentano e la frontgirl Serena Cherry prende il centro della scena adottando il pulito al microfono. Inoltre, in questa circostanza anche una produzione vagamente asettica contribuisce a rendere la tracklist un filo gravosa, facendo un po’ rimpiangere certe impulsività – nei contenuti, ma anche nella forma – degli esordi.
La tantissima energia che sgorga da alcune di queste canzoni – vedi l’opener “Faking It”, ad esempio – è comunque di per sé sufficiente a rendere l’ascolto complessivo piacevole, ma un nuovo salto di qualità gli Svalbard lo faranno quando la giustapposizione delle loro varie influenze musicali tornerà ad essere un pochino più equilibrata.