7.5
- Band: SYK
- Durata: 00:38:17
- Disponibile dal: 11/03/2022
- Etichetta:
- Nuclear Blast
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I Syk sono, loro malgrado, da anni uno dei segreti meglio custoditi del metal estremo italiano: dal debutto con “Atoma” nel 2014 fino ad “I-Optikon” del 2016 questi ragazzi ne hanno fatta di strada, tanto da arrivare a guadagnarsi le grazie di Phil Anselmo e a pubblicare su Nuclear Blast, eppure ciò non è stato ancora sufficiente per uscire dalla ristretta nicchia in cui sono rinchiusi, per colpa, ma soprattutto per merito, di una proposta non facile da assimilare.
“Pyramiden”, terzo album in studio, si muove più o meno sulle stesse coordinate delle opere precedenti, e di certo la formula da loro adottata non è tra le più semplici da descrivere: si immagini l’assalto sonoro sferrato dai Meshuggah, con il loro ritmo serrato e disarmonico appena mitigato da qualche rallentamento, e lo si combini con un approccio vocale teatrale e decisamente sopra le righe per avere una vaga idea della musica contenuta in questi pezzi. Perché, piaccia o non piaccia, è la voce di Dalila Kayros a menare le danze per gran parte del tempo (e qui si potrebbe aprire un discorso a parte, il consiglio è quello di ascoltare anche i suoi dischi da solista e le collaborazioni, spesso ancor più sperimentali): cupa ed accattivante al tempo stesso, la si potrebbe definire come una sorta di Bjork in preda agli incubi peggiori, oppure, restando in territori a noi più affini, paragonare all’istrionica Agnete M. Kirkevaag dei Madder Mortem, dei quali si può citare anche un simile spirito avantgarde o addirittura progressive, pur se, nei Syk, calato in un contesto più pesante. Questa antitesi tra atmosfere fosche e suadenti è spiegata dal chitarrista Stefano Ferrian: ““Pyramiden” è trovare il modo di isolarsi da tutti i disagi che provengono dalla società, ottenendo in questo modo uno spazio adatto per affrontare il proprio di disagio. È essere nel posto più lontano della terra, dove il silenzio lascia spazio a ogni sorta di visione o allucinazione. “Pyramiden” segue il principio alchemico della dissoluzione per assumere una nuova forma, ma immergendosi molto più a fondo nell’oscurità, dove sopravvivere significa inventare la luce nel buio“. La lunghissima titletrack, con un incedere incostante ed un effetto straniante, rappresenta al meglio questi concetti messi in musica, ma anche “Cell Of The Sun”, più diretta e con un finale ambient, ne fornisce un’ottima interpretazione.
Questo non è di certo un disco che può essere ascoltato come sottofondo, anzi, suoni del genere affrontati in modo distratto possono addirittura risultare fastidiosi. Se, invece, non si teme di trovarsi di fronte ad una materia ostica e complessa, qua dentro c’è da sbizzarrirsi.