7.5
- Band: TARJA
- Durata: 01:06:10
- Disponibile dal: 08/05/2016
- Etichetta:
- earMusic
- Distributore: Edel
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Il nuovo disco solista ‘rock’ di Tarja Turunen è fuori da poco, ma già si sentono pareri discordanti. Da un lato abbiamo chi apprezza il personaggio, la figura, o anche solo la voce della bella cantante finlandese, dall’altro però abbiamo anche coloro che sentono nostalgia della Tarja dei tempi della sua band originale, i Nightwish, oppure quelli che vorrebbero sentirla sempre impegnata su registri diversi. Il punto, a nostro avviso, è che non c’è un immagine precisa di chi è Tarja attualmente. Ha cominciato come dotatissima cantante soprano in un gruppo di metal sinfonico, si è riciclata con una carriera solista appoggiata su suoni più moderni, ha pubblicato una serie di album di musica classica e sacra (l’ultimo “En Plein Air”) e ha sfornato un numero notevole di dischi live, in cui canta un po’ tutte queste cose. Quindi? Quindi, oggettivamente, rimane difficile ‘spiegare’ musicalmente Tarja a chi non la conosce, è più facile dire che si tratta di una cantante straordinaria, con un repertorio vastissimo e eterogeneo, e che è meglio ascoltarla piuttosto che farsela raccontare. E questo è un po’ lo stesso concetto che accompagna “The Shadow Self”, album eclettico e vario, che tocca a spizzichi più o meno generosi tutto quanto abbiamo citato prima (e forse anche di più), ma che non ci vuole dare ancora un’immagine nitida del volto del soprano finnico. La tracklist è quanto mai variegata: l’opener “Innocence” è un pezzo elegante e ricercato, accompagnata da un pianoforte dominante assolutamente inaspettato e arricchito da soluzioni vocali da brivido; ma già la successiva “Demons In You” cambia bruscamente registro, mostrandosi fin troppo ardita nelle scelte, con un’intro quasi funkeggiante, strofe sottolineate da riffing pesanti e dal growl dell’ospite Alyssa White Gluz e ritornello catchy abbastanza fuori contesto. “No Bitter End”, pezzo che avevamo già sentito nell EP di presentazione “The Brightest Void”, mantiene alte le quotazioni di un metal moderno e sinfonico ammantato di melanconia, ma già alla traccia successiva Tarja abbandona il metal moderno per estrarre solo questo velo sinfonico e melanconico, con cui veste la bella “Love To Hate”, struggente passaggio all’insegna di una musica oscura e introspettiva quasi alla Evergrey. Sulla cover dei Muse “Supremacy” la cantante compie di nuovo scelte coraggiose e impreviste, stravolgendo il pezzo e la linea vocale di Matt Bellamy per riadattarla alla propria, inconfondibile timbrica: ulteriore conferma che niente su questo “the Shadow Self” sarà come lo si aspetta. Lo squarcio acustico di “The Living End” riporta le coordinate su atmosfere quanto mai oscure e introspettive, stavolta però doppiate dalla traccia successiva a titolo “Diva”, anch’esso grondante di nero e ombre. La Tarja in toni di grigio sentita da “Supremacy” in poi viene solo parzialmente accantonata dal riffing robusto di “Eagle Eye”, a guidare la canzone è infatti ancora il pianoforte e ovviamente la linea vocale, entrambi ancora stillanti quello stesso rammarico che grondava in egual misura dai sopracitati passaggi. L’imprevedibilità dell’album si sublima con le note quasi epic della sorprendente “Undertaker” (unico brano che forse ci ricorda qualcosa dei Nightwish), con l’oscurità umbratile della più pesante “Calling From The Wild” (brano invero un po’ noioso) e si conclude spalmandosi sui sei minuti conclusivi di “Too Many”, personalissima ma anche qui troppo lunga traccia che rimpasta un po’ i vari toni presenti sull’album, con maggior predilezione sempre per le suggestioni più introspettive e delicate. Che dire? Parlare male dell’album a priori è possibile, ma ci sembra ingiusto. “The Shadow Self” ha dei passaggi fin troppo lunghi e dilatati, in molti pezzi manca di un impatto che non sapremmo nemmeno dire se ci debba essere e quando cerca quell’impatto finisce per scivolare su scelte non del tutto condivisibili come su “Demons In You”… però è anche un album completo, in grado di riassumere cuore e contorni di una carriera, come si è detto, poco descrivibile e soprattutto focalizzato su un persistente senso di cupezza e malinconia che ne rappresenta invero il collante principale. Un album coraggioso, senza dubbio, e come tale lo premiamo.