8.5
- Band: THE BLOOD DIVINE
- Durata: 00:52:08
- Disponibile dal: 02/09/1996
- Etichetta:
- Peaceville
- Distributore: Self
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Come abbiamo recentemente e ampiamente trattato nel nostro speciale in retrospettiva sui The Peaceville Three, la metà degli anni Novanta, in terra d’Albione, è stata un periodo tremendamente florido per il proliferare di progetti musicali a cavallo tra doom e gothic metal, in grado di abbracciare poi altri grandi sottogeneri metallici – classic, progressive, death, black – a seconda della natura dei personaggi che ne hanno rinverdito i fasti. Un posto particolare, in tale fertile humus di formazioni, lo riserviamo ai The Blood Divine, sorta di supergruppo che ebbe vita breve (ma intensa!) prima di sciogliersi senza troppi colpi ferire e cadere poi in un dimenticatoio immeritato e beffardo.
La band di Colchester nasce nell’autunno del 1995 dall’unione di diversi musicisti già noti nella scena britannica, in primis ben tre ex-membri dei Cradle Of Filth ‘silurati’ da Dani all’indomani dell’uscita, datata marzo 1994, dello scioccante debutto su full-length dei Vampiri inglesi, “The Principle Of Evil Made Flesh”: Paul ‘P.J.’ Allender, chitarrista, ed i fratelli Paul e Benjamin Ryan, rispettivamente chitarrista e tastierista, non rimangono infatti seduti sugli allori e, mentre i COF rilasciano la loro pietra miliare “Dusk And Her Embrace” unendo atmosfere grandguignolesche al gothic inglese ed estremizzando il tutto con brutali partiture symphonic black ed il cantato obeso e disumano del loro mastermind, accolgono a braccia aperte fra loro il vocalist Darren J. White, a sua volta estromesso da qualche tempo dagli Anathema. Anathema che, da par loro, sono già progrediti in avanti con “The Silent Enigma” e stanno iniziando ad esplorare la loro anima pinkfloydiana con il prossimo all’uscita “Eternity”. Completano poi la lineup Steve Maloney al basso e William ‘Was’ Sarginson alla batteria, anch’egli breve meteora sfuggita in passato dal castello maledetto dei Cradle Of Filth.
Ebbene, nel bel mezzo di questo bailamme di uscite epocali – mettiamoci anche “Like Gods Of The Sun” dei My Dying Bride – la Peaceville approfitta della nascita dei The Blood Divine per rinfoltire la sua schiera di soldati e lanciare sul mercato l’esordio “Awaken”, un ottimo affresco, spettrale e romantico quanto ostico ed incompreso, di doom-gothic metal progressivo e completamente libero, che non somiglia a niente di quanto fin lì creato e concepito da quelle parti.
Certo, il songwriting è ad appannaggio dei fratelli Ryan e soprattutto nelle orchestrazioni e nelle sezioni di tastiera si sentono echi di Cradle Of Filth, ma per il resto ci troviamo assolutamente in territorio ibrido, a metà strada tra atmosfere malsane e depresse e decadenti visioni oniriche, che si espletano nel cantato super-espressivo di White, qui probabilmente alla sua migliore e più cangiante interpretazione di sempre. I primi Anathema, poi, fanno chiaramente capolino in un paio di tracce con cantato femminile – l’ospite è Ruth Wilson, la stessa che ha già presenziato sul “The Crestfallen EP” e su “Serenades” – che ammaliano per poesia, delicatezza e paesaggi da tramonto di un’era. Ci riferiamo chiaramente a “These Deepest Feelings” e all’apocalittica “Warm Summer Rain”, episodi che da soli valgono un’ascoltata ad “Awaken”, se mai vorrete dargliela.
Sono altre, però, le tracce che segnano maggiormente tale lavoro, un album che non si fa apprezzare in fretta ma che necessita di attenti ascolti per carpirne meglio le magnifiche strutture progettate. D’altronde, quando si parte con un brano di nove minuti e passa quale “So Serene” e i primi quattro minuti sono occupati da un’introduzione strumentale altamente cupa e drammatica, si ha ben chiaro da subito la caratura di questo lavoro, a tratti impressionante per slancio innovativo e ardimento compositivo. Non fa in tempo a terminare l’epica canzone d’apertura che un arpeggio pizzicato memorabile ci introduce in “Moonlight Adorns”, episodio più accessibile, aggressivo e melodrammatico, preso per mano da un giro di tastiera inconfondibile e riff che si impiantano nel cerebro in tempo zero; a tratti vengono in mente gli Amorphis di “Elegy”, uscito solo qualche mese prima.
“Visions (Of A Post-Apocalyptic World): Part I” è un interludio ambientale e rumoristico apparentemente senza senso, ma che serve ad introdurci in “Wilderness”, un’altra pennellata di classe simile ai primi Anathema ma condita dall’estro dei fratelli Ryan e di Paul Allender e dal basso solista di un Maloney sugli scudi. Il viaggio di “Awaken” continua tra alti e bassi stilistici, mai abbandonando però la qualità del songwriting, per una sezione di centro che alterna track più atmosferiche (“These Deepest Feelings”, “Oceans Rise”) ad altre maggiormente metalliche e standard per il genere (“Aureole”, l’enorme “Artemis”). Si giunge così a “In Crimson Dreams”, altro brano indimenticabile e iracondo, guidato da partiture chitarra/tastiere perfettamente incastonate fra di loro e che odorano di zolfo ed Inferno lontano un miglio, con arrangiamenti e dettagli da scoprire fruizione dopo fruizione: la perfetta produzione di Mags e Pete ‘Pee Wee’ Coleman ai soliti Academy Studios, il richiamare orrorifico e gobliniano delle tastierine gotiche di Ryan, l’ergersi doomy della prima parte, fino all’esplosione tanto attesa che fa decollare il pezzo lanciandolo alla velocità della luce su coordinate maideniane in salsa headbanging pesante; un vero capolavoro! E prima della chiosa commovente di “Warm Summer Rain”, ecco ancora “Heart Of Ebony”, traccia che si ricollega a “So Serene” e “Wilderness” nel dipanarsi attraverso complesse costruzioni gotico-progressive, riffoni lenti e marziali, voce sempre in primo piano e stacchi più classic-oriented e sostenuti.
Oltre ventiquattro anni sono passati, ormai, da quel giorno del settembre 1996: i The Blood Divine furono la opening band, in quell’autunno, di un tour che vedeva protagonisti My Dying Bride e Cathedral, alle prese rispettivamente con le promozioni di “Like Gods Of The Sun” e “Supernatural Birth Machine”; poi, nel 1997, il comeback album “Mystica”, del tutto non capito e solo di poco meno avvincente del debutto, pose fine all’avventura del Sangue Divino, spentosi poi nel maggio del 1998, lasciandoci con l’amaro in bocca e – almeno quello – con un masterpiece assoluto del genere, oggi da riscoprire, risvegliare e dissotterrare dal camposanto. Bellissimo certificato DOC.